Chiara Marchelli, nata ad Aosta nel 1972, è finalista al Premio Strega 2017 con il romanzo Le notti blu, edito dalla Giulio Perrone Editore.
Laureatasi alla Ca’ Foscari in Lingue Orientali, ha poi insegnato scrittura creativa all’Università di Pavia e alla John Cabot University di Roma. In passato ha vissuto in Belgio e in Egitto, mentre dal 1999 si è stabilita a New York, dove dal 2004 insegna italiano, traduzione e scrittura creativa. Nel frettempo, collabora con alcune realtà statunitensi e italiane come editor, copywriter e traduttrice.
In occasione della sua candidatura allo Strega, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con l’autrice a proposito della sua opera – e non solo.
Che cosa significa per lei scrivere, pubblicare e partecipare al panorama letterario italiano, mentre vive da tempo dall’altro lato dell’oceano?
Scrivere è un’attività che prescinde da qualsiasi collocazione geografica ed è nel contempo nutrita dalla distanza. Non tanto l’atto, quello fa parte della mia grammatica da sempre, quanto gli argomenti e le modalità. Faccio spesso l’esempio di Natalia Ginzburg quando parlo del vivere altrove. Scrisse Le voci della sera da Londra, dove si era trasferita perché il marito Gabriele Baldini era il direttore dell’Istituto Italiano di Cultura lì. Calvino le scrisse dicendole che in quel libro si sentiva di più il suo Piemonte: “Questo Piemonte, ora che ne sei lontana, mentre prima sempre lo sfumavi e lo genericizzavi, ora ti esce fuori da tutti i pori. Mai letta una cosa così piemontese, piemontese da far piangere”. Credo che la distanza agisca sul meccanismo della memoria in un modo molto particolare, nutrendo sia la nostalgia che il distacco. Per quel che mi riguarda, vivo un’immersione completa dentro una forma di sospensione, che è il territorio della scrittura.
La pubblicazione è un aspetto che affido invece volentieri alla bravura dei miei due agenti: Monica Malatesta e Simone Marchi. Prima di loro ho fatto da sola, ed è stato faticosissimo, tranne la magnifica esperienza con Marsilio, con cui ho esordito, poi ho avuto un altro agente, che ho lasciato al secondo libro insieme. E finalmente ho trovato gli agenti giusti che non solo capiscono il tipo di libro che gli viene sottoposto, ma sanno anche trovargli la giusta sistemazione.
Al panorama letterario italiano partecipo nel modo più essenziale possibile, e cioè attraverso quanto scrivo. Vivendo qui, non prendo parte a iniziative, incontri, discussioni. Tranne quando viene pubblicato un mio libro, per cui ne seguo l’uscita in Italia. Un po’ mi dispiace, sono certa che sarebbe utile e interessante, ma è anche vero che questa operazione di riduzione all’osso potrebbe fare bene alla scrittura, dopotutto.
Il titolo del romanzo è ispirato ai diversi concetti a cui si riferisce in inglese l’aggettivo “blue”: la malinconia, la depressione, l’infanzia, la tenerezza dei genitori, oltre al colore di cielo e mare. Ci sono degli altri modi o passi del libro in cui la lingua inglese ha influenzato in qualche modo la narrazione?
No, direi di no.
La storia si dipana alternativamente seguendo il punto di vista di Larissa e Michele, coniugi ormai da decenni. C’è, però, molto di mascolino nella voce di lei e altrettanto in quella di lui, come se entrambe fossero tendenzialmente un po’ fuori da certi cori “tradizionali”. Qual è l’intento di questa scelta?
L’intento, nessuno. I personaggi si sono costruiti così. Ho forse voluto immaginare una certa perentorietà di carattere in entrambi, sebbene declinata in sfumature diverse per ognuno, anche per dar loro modo di sostenere dapprima una vita altrove in anni in cui non lo si faceva spesso, con il conseguente carico di solitudine e difficoltà della New York degli anni Settanta, e poi, soprattutto, per reggere quanto li ha colpiti. Ma Michele a un certo punto tira fuori un lato che dapprima è nascosto, e cioè una profonda umanità. Poca tenerezza, è vero, la sua è più una forma di giustizia, ma quest’uomo ha fiducia, ed è forte. Estrae dalla sua apparente durezza una quantità di risorse che si pensano tradizionalmente femminili, e che invece sono sue, e ne fanno un uomo non soltanto ferito, ma anche vivo.
Pregnante e al centro dell’intreccio è il suicidio di Mirko, unico figlio della coppia. Eppure, anziché diventare un forzato punto di arrivo, l’evento si trasforma in una possibilità di rinascita per chi è rimasto. Da che cosa prende spunto questa visione della vita e della morte?
La vicenda è nata nella mia immaginazione per l’urgenza che avevo di raccontare, ma non volevo che Le notti blu diventasse la storia di un lutto impossibile da superare. Ci voleva qualcosa di dinamico, uno strappo, uno scandalo quasi, per obbligare questi due genitori sfiniti a fare una scelta. A quanto mi è dato capire, la morte viene controbilanciata soltanto dalla vita.
Non passa inosservata l’attenzione dedicata alla “teoria dei giochi”, una scienza matematico-economica che studia le scelte individuali nel rapporto con soggetti rivali. Qual è il legame fra questa teoria e le decisioni prese dai personaggi de “Le notti blu?
La teoria dei giochi è la materia che il padre, Michele, insegna all’università. È la sua passione, il suo lavoro, il suo rifugio, l’appiglio che trova quando Mirko si uccide e nulla ha più senso. Michele prova a cercare in questa teoria, nei teoremi degli equilibri tra individui e nelle strategie di sopravvivenza, un modo possibile per capire quanto è successo e come, eventualmente, tentare di procedere.
Nel loro conversare e riflettere continuo, Larissa e Michele fanno i conti con il dolore della loro perdita e con la difficoltà del sanarla come si può, come si vuole, talvolta come si deve. Che cos’ha da insegnare ai più giovani e da rammentare ai meno giovani un’esperienza genitori-figli così sofferta?
Il dialogo, forse. La cura reciproca, soprattutto. La tenerezza, la pietà, il rispetto dell’altro e del suo mistero, l’accettazione che siamo soltanto essere umani in grado di arrivare sempre e solo fino a un certo punto.
In un’ottica più globale, comunque, le vicende sembrano incentrate sulle molteplici declinazioni dell’amore e delle sue distorsioni, che a volte vengono a galla attraverso (o nonostante) confessioni spiacevoli e segreti scomodi. Visto da questa prospettiva, l’amore è molto diverso da come siamo abituati a immaginarlo idealmente…
Dice bene, “idealmente”. L’amore per reggere deve sporcarsi, altrimenti è una suggestione, una fiammella, una poesia. L’amore deve essere in grado di diventare robusto abbastanza da sostenere il contraccolpo delle menzogne, delle delusioni, della noia, della mancanza. Deve farsi fondamenta e cemento armato. Se non è così, il primo soffio di vento se lo porta.
Il legame dei personaggi fra gli Stati Uniti e l’Italia è complesso e a tratti lacerante, il che fa subito immaginare un’ispirazione personale nella narrazione. In che misura questo è vero e in cosa, invece, il legame di Chiara Marchelli è diverso da quello dei protagonisti?
Il mio rapporto con la distanza è complesso e cambia nel corso del tempo. In uno dei miei romanzi faccio dire a un personaggio: “Tornando ho capito una cosa che prima di andarsene uno non sa: una volta partiti, si è andati per sempre. Non si apparterrà mai completamente al luogo dove si va, e non si sarà mai più della terra che lasciamo. Non si sanno queste cose, prima. Bisognerebbe che qualcuno le dicesse”. Ecco, il punto di partenza è un po’ questo. Cosa ne abbia fatto in passato e ne faccia adesso, dipende da molti fattori e tende a variare. Sempre meno, fortunatamente. Comincio infine a stabilizzarmi e accettare che è la geografia interiore a darmi casa ed equilibrio, più che quella esteriore. E la scrittura. Ma quella funziona da sempre come mondo parallelo e alternativo. La scrittura è una salvezza.
Un’ultima domanda, ma non per importanza: come sta cambiando o come si sta evolvendo la sua esperienza di persona e di scrittrice, specialmente nella realtà inter-nazionale di cui lei fa parte, dopo la candidatura al Premio Strega 2017?
Dal punto di vista personale, mi dà l’opportunità di espormi a esperienze che non avevo mai vissuto. Ho la fortuna di lavorare con persone straordinarie – casa editrice, agenzia, ufficio stampa – che si stanno spendendo oltre ogni immaginazione, e io con loro. Tutto questo ha creato tra di noi un clima di collaborazione e impegno che è robusto, entusiastico, persino un po’ incosciente. In tutto questo mi diverto, nel senso che godo profondamente dell’esperienza e di tutto ciò che sta portando nella mia vita, in Italia e qui a New York. Il giorno in cui ho saputo di essere stata selezionata nella dozzina, ho portato nelle mie classi in università tre vassoi di pasticcini, e abbiamo festeggiato tutti insieme.
Oltre al mio quotidiano, la selezione allo Strega mi fa ben sperare rispetto a molte cose: non c’è soltanto il mio percorso di scrittrice in gioco, ma tutta una visione del mondo e delle cose che pare smentire e sfidare certe convinzioni. È piuttosto viva in questi giorni una polemica sul premio, come credo succeda ogni anno, ma se io, che sono un’outsider che vive all’estero, non ha santi in paradiso, non partecipa ai salotti letterari ed è pubblicata da un piccolo editore indipendente, se io sono nella dozzina, allora da qualche parte ci deve essere qualcosa di genuino, di vero, che funziona nel modo corretto.
Per questo stiamo lavorando così sodo al seguito: chissà che non succeda l’incredibile. Poi, cinquina o non cinquina, già la selezione nella dozzina per me ha cambiato molte cose: il libro riceve attenzioni che altrimenti non avrebbe, e questo fa bene al romanzo e a me. Mi fa sentire più forte, premia il lavoro di molti anni, mi incoraggia a proseguire con serietà e impegno.
Come dico spesso, parlando al plurale perché Le notti blu non è più soltanto mio, abbiamo già vinto.
Eva Luna Mascolino
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