Meno cazzate: siamo stanchɜ delle imposizioni di genere

Meno cazzate, Nat Gildi
(Giulio Perrone Editore, 2023)

«E l’Apostolo, l’Apostolo che ringhia sempre contro tutto e tutti, l’uomo che ti ha colta in flagrante, che ha scoperto che ti eri chiusa nel pub e che forse eri nuda e ha pensato: ora vado là e con le chiavi apro la porta e la becco, e magari vedo pure qualcosa di tutta la scena. Immaginandosela già, pregustandosela forse, l’Apostolo che è un verme ipocrita, e che in quel momento ti urla contro, e ti urla contro puttana, e nell’eco delle mille e una notte che ha passato lui con le sue amanti lì dentro tu ti senti tanto superiore che rispondi alle sue urla, tanto forte da non sentirti schiacciata, da non sentirti puttana, tanto forte che sei pronta a camminargli in testa con il sacro fuoco della tua rabbia, del tuo diritto a scopare, del tuo diritto a comportarti come un uomo, a fregartene come un uomo, del tuo diritto a fare cazzate.

Uscire urlando ai rami degli alberi tutto il tuo sdegno, alle quattro di notte con la bava alla bocca e la pelliccia rosa infilata a metà.»

Meno-cazzate

Il romanzo di Nat Gildi apre con questa scena che subito ci proietta nella vita rocambolesca della protagonista, una ragazza dalla forte emotività, capace di un’irrefrenabile dolcezza e contemporaneamente di una grande e insolvibile frustrazione. Questa scena nel pub, denominata “Il Dramma”, verrà poi ripresa più e più volte, in modo sempre più incalzante nel corso della narrazione, alla quale si aggiungeranno dettagli sempre più perturbanti e inquietanti, come un paziente in psicoanalisi che rievoca, per affioramenti sollecitati dalle profondità del suo inconscio, i ricordi frammentari del suo trauma.

Lɜ autricɜ ci restituisce il ritratto complesso di una personalità burrascosa e teneramente bisognosa di affetto, un ritratto che viene lentamente ricostruito attraverso il resoconto delle sue storie d’amore, e di dolore, con uomini e donne, descritte con uno stile graffiante e incisivo, con un trasporto tale che si direbbe autobiografico. Come un diario in cui conservare tutti i suoi ricordi affettivi, sentimentali ed erotici, la protagonista passa in rassegna i suoi amanti, saltando da uno all’altro, alla ricerca di qualcuno che possa farla sentire viva, capita e amata, e allo stesso tempo alla ricerca di se stessa attraverso gli altri: perché noi siamo anche questo, siamo parti delle persone che amiamo e che abbiamo amato, nei cui occhi scopriamo il riflesso di qualcosa di nostro.

È solo dopo le sue prime, lunghe e tormentate, storie d’amore che la protagonista realizza quanto potere permette agli uomini che ha amato di esercitare su di lei: sono loro a decidere quando e se vedersi, che decidono per lei con chi può uscire, come vestirsi, come tagliarsi i capelli, come rispondere, come comportarsi. Chi essere.

Lo squilibrio eccessivo di potere che subisce nelle sue prime relazioni la portano a introiettare una serie di traumi risolti in azioni e pensieri di dominazione; e così prova per tentativi a sublimare l’umiliazione subita in atti di indipendenza emotiva che la distaccano da donne e uomini per lɜ quali prova un sentimento più forte. Nonostante questo, nulla può salvarla dall’andare alla deriva, dall’invaghirsi invece di persone che non ricambiano i suoi sentimenti, forse perché la fanno tornare, irresistibilmente, a una situazione che la priva del controllo. La protagonista vive l’interezza dell’amore, in ogni sua forma, come un esercizio di potere e controllo.

Il locale dove lavora, il Gorilla, dove ha conosciuto e frequentato le sue principali relazioni, è un locale in cui si svolgono serate fetish. Il Gorilla è popolato da una clientela che adopera le pratiche BDSM nella reiterazione degli stessi ruoli eteropatriarcali della società: solo la donna può assumere il ruolo di schiava, sottomessa, masochista. Solo la donna può avere il collare, mentre all’uomo corrisponde l’unico padrone possibile.

«Ho scoperto solo molto tempo dopo che poteva non essere così. Che il fatto che mi piacesse sia subire che infliggere dolore non era sbagliato, che c’era un’altra realtà fuori dalle dinamiche di dominazione e di scambio di potere, che il modo spensierato in cui a quindici anni io e il mio primissimo ex sperimentavamo l’uno sull’altro con quel frustino nel letto di sua madre era molto più sano di quello di tanti altri che si dichiarano veterani.»

Ciò che attrae la protagonista nel BDSM, scoprirà poi, dopo una serie di rapporti che le permetterà di sperimentare la sua sessualità, è infatti la possibilità di cambiare ruolo, di definirsi fluida attraverso narrative diverse, nello scambio di dominio e vulnerabilità tra i partner.

Il “Dramma” è la conseguenza di un lungo tracciato di abusi, verbali, psicologici e fisici, che portano la protagonista a nutrire un senso di insofferenza sempre maggiore per il ruolo sociale che le è stato imposto.  Essendo una ragazza che lavora in un locale notturno, nessuno le riconosce l’autorità del capo nonostante lo sia, mentre i suoi colleghi maschi ottengono sempre la considerazione e il rispetto dei clienti del Gorilla, nonostante la mancata professionalità.  Ciò che non viene perdonato alla protagonista è l’atto di aver manifestato il suo desiderio sessuale all’interno di questo contesto machista, senza vergogna o pudore o autoimposizione di alcun genere.

La protagonista scopre invece, mano a mano che si addentra nell’intimità di un dialogo sempre più diretto con la propria sessualità, le potenzialità del BDSM di dare la possibilità di esprimersi al di fuori della rigidità degli schemi di genere. La bellezza liberatoria del giocare a scambiarsi i ruoli, del sadico e del masochista, del padrone e dello schiavo, slegando le dinamiche di potere dalle identità di genere e permettendo di esprimere liberamente i lati più contraddittori del sé, senza bisogno di ordinarli, senza finalmente la necessità di circoscriverli, censurarli, vergognarsene.

Perché siamo tutti parte di generi diversi, abbiamo identità complesse, idee complesse. Le etichette servono per riconoscerci e per farci conoscere, ma non dobbiamo dimenticare che non sono esaustive della nostra persona. Sono solo strumenti umani utilizzati per conoscere la realtà, e in quanto tali inevitabilmente fallaci.

Il percorso di autoaffermazione sessuale sfocia in un finale non risolutivo. La protagonista non ha un’idea più chiara di sé, anzi, è ancora più confusa dell’inizio, è lucida unicamente sulla consapevolezza dei propri desideri conflittuali, della multiformità della propria identità. Accetta il fatto di non potersi rispecchiare nelle aspettative degli altri.

La questione sulla sua sessualità quindi rimane aperta, anzi arriva al suo culmine nelle ultime pagine, riprendendo la scena del “Dramma” iniziale, senza che ci sia un risvolto; e questa è senza dubbio la cosa che ho apprezzato di più. In una società che ci impone, ancora una volta, di essere finiti, classificati, etichettati per essere intellegibili, comprensibili, il romanzo ci suggerisce di accettare anche la complessità, l’indeterminatezza, insita in ognunə di noi. Legittima il non sapersi accettare, anche, il non sapersi capire.

Meno cazzate è un libro che può far riflettere sugli effetti che le pressioni delle sovrastrutture sociali hanno sulla nostra identità, sulle nostre vite e sulle nostre relazioni, sessuali, sentimentali e affettive. Cerchiamo di essere come gli altri desiderano, e attraverso questo filtro sociale diventa impossibile riconoscere ciò che vogliamo desiderare da ciò che desideriamo davvero.

Può aiutarci a realizzare come siamo costretti dallo sguardo sociale ad essere qualcosa che non si è, essere costretti ad essere una sola cosa, per essere inseriti in un sistema di specchi, strozzando le altre forme che coabitano in noi; Nat Gildi le libera, perché questi dogmi ci hanno stufato, perché sarebbe l’ora di dire: Basta cazzate.

Davide Lunerti

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