Letteratura, cerimonia, magia: intervista a Franco Pezzini

Morte Astrale, uscito nella collana Interzona di Polidoro, è il primo romanzo di Franco Pezzini, conosciuto per una ricca produzione saggistica su argomenti quali letteratura, cinema, antropologia, mitologia, religione e fantastico. In Morte Astrale possiamo trovare tutti questi temi: una prima linea narrativa del romanzo è ambientata all’inizio del Novecento, momento in cui la società segreta iniziatica della Golden Dawn entra in crisi. Qui, un gruppo di protagonisti deve indagare su una serie di omicidi, che avvengono su un diverso piano della realtà ma con conseguenze sul mondo reale. La seconda linea narrativa, invece, ci porta nel Medioevo, con richiami alla tradizione delle chansons de geste e la ricerca del Graal – il suo protagonista è Wolfram von Eschenbach, scrittore del Parsifal. Ovviamente, le due linee sono legate da pratiche occulte e magiche che vengono trasmesse nei secoli, e molte delle spiegazioni cercate nel Novecento trovano una parziale risposta in ciò che succede nel Duecento. Pezzini riesce a creare, all’interno del libro, un’atmosfera di mistero e segreti che non solo rende la lettura avvincente, ma porta il lettore all’interno di un mondo esoterico e magico in cui tutto viene rivelato per allusioni, in cui la verità rimane sempre nascosta in qualche intercapedine, in cui il funzionamento profondo del mondo si può intuire ma non afferrare. Abbiamo intervistato Pezzini per saperne di più. 

Per iniziare, partirei dal titolo del libro, Morte astrale. L’aggettivo astrale rimanda, all’interno della storia, a una realtà parallela, ma c’è anche un riferimento agli astri…
Anzitutto ti ringrazio dell’attenzione. Sì, mi sono divertito a sovrapporre le due accezioni. Da un lato l’astrale come dimensione fuori dal corpo secondo vari filoni dell’esoterismo, in cui avere esperienze pneumatiche, fare incontri illuminanti o minacciosi, magari battersi in pirotecnici duelli: da questo punto di vista ho attinto ampiamente alla documentazione della magia cerimoniale e dell’occultismo occidentale moderno (Golden Dawn, scritti di Dion Fortune e di Aleister Crowley, eccetera). Mi affascinava quel sottomondo culturale, in particolare nel contesto postvittoriano, e anche la possibilità del rapporto con una dimensione “altra”, in qualche modo parallela e sollecitabile con stringhe alfabetiche – “nomi barbari” e altro – sulla base dell’idea della realtà come esprimibile in qualche codice alfanumerico. Considera che il libro nasce nel dopo-Matrix, vent’anni fa, un po’ come risposta personale a discorsi e chiacchiere d’epoca su quel film, molto godibile ma non così originale come talora preteso nella sua “filosofia”.
La seconda accezione è appunto materiale, a proposito di un tema che (non potevo esserne certo, ma già al tempo si riusciva a sospettarlo) ha assunto in tempi recenti un peso nuovo: la minaccia alla Terra da parte di corpi celesti come comete e soprattutto asteroidi. In termini probabilistici un impatto, speriamo di dimensioni contenute, si fa sempre più vicino…

Uno dei testi di riferimento per Morte Astrale è il Parsifal di Wolfram von Eschenbach, che è anche uno dei protagonisti del libro: come mai, della leggenda di Parsifal, hai scelto questa versione?
Due motivi: la versione di von Eschenbach, fortemente visionaria e piuttosto anomala rispetto al quadro delle storie arturiane più note, intrisa di simbolismi da varie tradizioni culturali (anche ebraica, araba…), è l’unica che parla del Graal come pietra dal Cielo, a collegarsi a stretto filo con la provocazione della minaccia di asteroidi – anche se lì ovviamente ha tutto un altro significato. Ma alcune riletture delle storie arturiane hanno indicato in simili fenomeni celesti la causa di taluni prodigi registrati dai cronisti britannici e di incomprensibili eventi calamitosi di un’epoca poco documentata.
D’altronde la versione di von Eschenbach è quella ricordata in un vecchio, fantasiosissimo libro che ha offerto un potente stimolo alla mia narrazione, La Lancia del Destino di Trevor Ravenscroft: l’idea che personaggi del IX secolo cifrati in figure di questo specifico Parsifal siano tornati per reincarnazione nell’Europa prenazista – per una magia combinatoria di elementi sottili quanto quelli alla base del resto della realtà – permetteva una serie di trovate narrative…

La leggenda del Graal continua a distanza di molti secoli, a esercitare un certo fascino nei lettori e negli studiosi; essendoti occupato a lungo di questi temi hai trovato dei motivi per spiegare questa attrazione?
Quello del Graal è un archetipo che aggrega una quantità di materiali e varianti mitiche: possiamo sorriderne, ma è un tema di interesse persino nelle sue dimensioni equivoche. In ogni caso interpella la storia delle idee e comunque le nostre storie personali: fin da certe riscritture sul Corriere dei piccoli, vorrei dire, negli anni della mia infanzia. A firma, mi pare, dell’immenso Mino Milani. 
D’altronde viviamo in un tempo fangoso e putrido – pensiamo solo alla politica orrenda nazionale e internazionale –, dove la speranza latita e la Bellezza è merce rara e preziosa: le antiche leggende ce ne offrono scorci. Da condividere non per escapismo, ma per sano sollievo e ossigeno, se vuoi per sprone a migliorarci. Non certo per il sogno (antistorico) di restaurare a un qualche Ordine perduto graalico la nostra Terra Desolata, ma per l’urgenza di recuperare, in una realtà naturalmente (e sanamente) conflittuale, le istanze di una Cerca interiore. La Terra Desolata l’abbiamo dentro, se ne medichiamo qualcosa l’esterno avrà beneficio.

Più in generale, si potrebbe parlare di una fascinazione esercitata dalla magia sull’essere umano…
Magia è un termine dai molti significati, tanti dei quali constatiamo come fondati e fondanti nella vita quotidiana. Qualunque artista (scrittore, pittore, musicista…) porti avanti la sua opera con passione e tensione compie un atto magico, affermava Crowley: e non si tratta solo di quella modica quantità di estasi che ci serve per vivere. Il fatto è che con le parole e con l’immaginario noi plasmiamo, nel nostro piccolo, il mondo che abbiamo intorno. Come ci diciamo tante volte con i complici di Carmilla online, come pensava Valerio Evangelisti, l’immaginario è quella realtà prepolitica, prescientifica eccetera che modella la storia: lavorare sull’immaginario significa decrittare quello calatoci addosso – quindi farci fregare di meno – ed elaborare strategie di resistenza. Non è poco. 
Che questi temi piacciano, in un mondo da un lato ipertecnologizzato, ma dall’altro pronto a usare la tecnica in chiave magica e stregonesca, non è strano. Negli anni Sessanta la nostra visione del futuro era piena di macchine per muoversi più comodamente, di razzi, di soluzioni robotiche alla “I Pronipoti” (ricordi il vecchio cartone animato)? Non immaginavamo che il futuro tecnologico sarebbe stato invece votato a qualcosa di meno pirotecnico e ingombrante: comunicazioni, visioni, collegamenti sottili… l’arsenale dei maghi, in fondo. Computer come specchi magici, riunioni web come adunate fuori dal corpo.
Fin qui in senso metaforico o di provocazione: ma persino nell’accezione più tecnica di magia, basta leggere qualcosa di Chaos magic per rendersi conto di quali potenti connessioni vi emergano con il mondo digitale, con l’orizzonte del web e dell’AI, con la cultura pop e la realtà virtuale. Per cui si tratta di intendersi sul contenuto, ma di magia – in qualche senso – non sembra possiamo fare a meno.

La realtà ipertecnologica in cui viviamo sembra influenzare in modo diretto il campo letterario (e più in generale, umanistico), con una riconsiderazione della letteratura (e cinema) di genere, che ritorna a essere un mezzo per analizzare e parlare indirettamente del nostro mondo…
Sì, anche se su questi temi occorre ancora combattere. C’è ancora chi sovrappone il distinguo “letterario” / “non letterario” a quello “mainstream” / “genere”, laddove si tratta di due discorsi del tutto diversi (ovvio che i polizieschi di Simenon, per dire, siano letteratura, ed è demenziale rifiutare al Signore degli anelli la qualifica di fantasy solo perché la consideriamo letteratura). Certo la confusione è peggiorata da due opposti snobismi, quello “dall’alto” che guarda il genere con disprezzo, e l’altro “dal basso” di “noi, duri e puri contro i salotti letterari”. Poi è chiaro che Star Wars non possa “sostituire” l’Odissea: le banalizzazioni non portano da nessuna parte. Ma è un fatto che umanesimo significa apertura a tutta la cultura, senza steccati: quel che tante volte trovo asfittico nel fandom è la sua diffusa caratteristica di “chiudersi”, di non considerare che anche il discorso più settoriale può condurre a ragionare sulla realtà, se supportato da curiosità e voglia di capire. Ridicolo pensare che per scrivere basti leggere un singolo genere – o, peggio, un solo autore; pericoloso credere di poter ignorare le ricadute ideologiche di temi e storie per chiuderci in un giardinetto appartato. Possiamo fingere che le ricadute non ci siano, ma saremo solo utili idioti funzionali a chi è più forte. La produzione di genere, con il suo “candore”, permette al contrario di ragionare in grande, sulle provocazioni importanti (il pianeta, l’ambiente, la pace, la gestione del potere), fuori dai minimalismi ombelicocentrici periodicamente di moda…

Tornando invece su Morte Astrale, è presente un grande lavoro sui personaggi, alcuni di finzione, altri che richiamano a personaggi reali, altri ancora che sono veri e propri  personaggi reali – come Crowley – ma che rientrano bene nella narrazione per il loro quoziente di irrealtà: la percezione è quella di muoversi su un filo sottile tra ciò che è reale e ciò che non lo è.
Ti ringrazio. Il tentativo era quello, anche se gli stessi personaggi di finzione sono vivificati da modelli reali, persone che conosco o ruoli canonici di attori. Del resto il romanzo, come il teatro, è l’arte che propone cose finte per raccontare quelle autentiche… e tutte le volte che scriviamo qualcosa, mettiamo la nostra firma ma in calce dovremmo aggiungere tremila altri nomi. Persone che sono “presenti” alla nostra vita con riflessioni, provocazioni e voci, e che in fondo danno carne concreta.
Poi sì, la storia (in sé folle) è costruita sul filo tra una serie di stimoli – a volte semplici contingenze – di carattere storico e documentato e tentativi il più possibile coerenti e “credibili” di costruirvi attorno in termini fantastici. Visto che a distanza di tanto tempo non ricordo neppure tutti i brandelli di fonti con cui ho lavorato, non è semplice neppure per me segnare nette demarcazioni tra reale e possibile, eventuale o semplicemente funzionale alla trama.

Come dici nei ringraziamenti, questo romanzo è stato in gran parte scritto vent’anni fa: quanto è cambiato prima della pubblicazione tra la stesura originaria e quella che leggiamo ora? E dopo aver ripreso in mano questa prima parte, è già iniziata la lavorazione della seconda? (Ovviamente spero in una risposta affermativa a quest’ultima domanda)
Sei molto gentile, inizio col dire che Morte astrale 2 è in effetti già nelle mani del direttore di collana, ma credo che passerà un po’ di tempo prima dell’uscita. La storia permette di tornare al discorso dell’“autenticità”: il romanzo nasce nel clima molto sofferto dell’acquisizione della società dove lavoravo (non farò nomi) da parte di una multinazionale. Letta a posteriori, l’immagine della casa assediata potrebbe spiegarsi così… anche se in realtà trovavo soprattutto stimolante lo spunto, da Omero in avanti l’assedio e il ritorno sono categorie narrative fondamentali. Comunque la storia nasce per un bisogno umanissimo: quello di non perdere una serie di dialoghi personali che avevo avviato davanti al totem del caffè in ufficio, e sui quali si sarebbe abbattuto un simile smembramento della nostra quotidianità. Un modo per ritrovare almeno qualcosa di quegli scambi, per dar loro tempi supplementari costruendoci attorno un’avventura. Poi chiariamo: il personaggio di Ariadne non si esaurisce nella figura concreta della mia amica Arianna con cui lì lavoravo ogni giorno – non le avrei fatto un favore, per esigenze narrative ho dovuto attribuirle una naïveté che non le appartiene – come Finisterre trattiene di me solo qualcosa. Ma la spinta è stata quella.
Sul manoscritto, che in origine comprendeva sia questa parte che quella del “sequel”, avevo lavorato a lungo: poi è finito in un cassetto, in attesa di tempi migliori. E sono passati tanti anni. Finalmente in tempi recenti, andando in Inghilterra e visitando librerie di catena come Waterstones, mi è venuto in mente che una storia del genere avrebbe potuto interessare lettori di lingua inglese… Insomma, si stava parlando con Orazio Labbate, gli avevo proposto un altro testo (un oggetto narrativo non identificato, come li chiamano i Wu Ming – con calma uscirà anche quello) su cui però occorreva ancora lavorare e gli ho mostrato questo, semplicemente spezzandolo in due parti e dando qualche minimo ritocco: gli è piaciuto e l’ha accolto. A grandi linee è insomma il lavoro di vent’anni fa, come altre cose che nascondo nei cassetti…

Intervista a cura di Enrico Bormida

Immagine in evidenza: Maria und ein Uhrmachermönch, Bibliothèque royale de Belgique Albert 1, Wikimedia commons, public Domain.

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