(MAW, Jude Ellison Sady Doyle
Edizioni Tlon, 2021 — trad. Laura Fantoni)
«Quando è forte, il dolore sembra fame. Faresti qualsiasi cosa perché smetta.
Sento la mia fame crescere, muoversi come un animale dentro di me. Non vuole cura, né comprensione. Non vuole che io stia meglio. Vuole sangue.»1
Già autore dei saggi femministi Il mostruoso femminile (Edizioni Tlon, 2021) e Spezzate (Edizioni Tlon, 2022), Jude Ellison Sady Doyle scrive MAW, illustrato da A. L. Kaplan e colorato da Fabiana Mascolo, per la prima volta realizzando una graphic novel, per la prima volta pubblicando un’opera di narrativa. Nel farlo, sembra accogliere l’invito harawaiano2 a riconsiderare le potenzialità del racconto, fantastico e fantascientifico, all’interno del dibattito filosofico, sfruttandola come appendice immaginaria per portarci verso presenti possibili; per trasmetterci, anziché solamente divulgare, le conseguenze del sistema patriarcale di cui tutt3 facciamo esperienza.
La storia di MAW è il racconto, dalle scene piuttosto gore e non per stomaci deboli, della trasformazione di una donna, Marion, in un’entità antropomorfa via via sempre meno umana e più mostruosa. A seguito di un episodio fortemente traumatico di violenza fisica, sessuale e sociale, Marion viene convinta a fatica dalla sorella a intraprendere un percorso di empowerment presso una comunità di donne in riva al mare, dove non è permessa la presenza degli uomini. I riti che si svolgono all’interno di questa comune, collegati a segni di divinità infere e preistoriche, si rivelano essere molto diversi dalle pratiche terapeutiche che le sorelle si aspettavano, portandole a confrontarsi -letteralmente- con i propri demoni, con conseguenze più distruttive che salvifiche.
La narrazione di Doyle, probabilmente assimilabile al genere gotico, è pregna di immagini e metafore riscontrabili nei suoi scritti critici, che riprendono al contempo una serie di archetipi e iconografie risalenti dall’età antica a quella moderna, di carattere strutturale nella formazione dei paradigmi patriarcali della cultura occidentale. Vengono citati gli studi antropologici di Frazer e i miti greci delle divinità del mondo ctonio: prevalentemente di genere femminile, abitanti degli abissi oscuri della terra e del mare, emergono dal profondo genealogie di donne mostruose, tra le più conosciute Scilla, Cariddi, Medusa, e in particolar modo le Erinni, o Furie, dee mostruose della vendetta.
In MAW (traducibile come “fauci”, ma anche come le viscere e il ventre animali) in primo luogo è infatti presente il campo semantico del mostruoso, del disgustoso, dell’abietto: dalle creature viscide e viscose degli stagni (granchi, pesci, serpenti), agli ematomi, le ferite infette, le viscere, le perdite di sangue, capelli e liquidi corporei. Dalla violenza trasfigurante che deforma i corpi, alla loro metamorfosi in creature non umane.
Questo immaginario non è a sé stante, ma brillantemente intessuto alla storia che racconta. La metamorfosi della protagonista diventa metafora della sua sofferenza: costretta a dover subire le conseguenze del suo trauma, forse più atroci dell’evento traumatico stesso, nel silenzio e nella vergogna che la società le ha imposto, il trauma che nasconde dentro di lei corrobora il suo corpo, ristagna in lei; nel suo ventre, dalle profondità del suo dolore e del suo sangue, nascerà in modo incontrollato una nuova vita, allo stesso modo delle specie microbiologiche che nascono nell’acqua stagnante, come granchi che crescono nella fanghiglia melmosa degli acquitrini, come rospi che sorgono dagli stagni in putrefazione. Un trauma che convive e coltiva dentro di lei, come un figlio, fino al momento del parto mostruoso.
Già in Il mostruoso femminile Doyle utilizzava questo tipo di immaginario, nel corso di una dissertazione che analizzava i motivi per cui il genere maschile prova terrore e disgusto delle donne, principalmente sintetizzandoli nei contesti della sessualità e della gravidanza. Citando Kristeva, nel suo saggio dell’82 Poteri dell’orrorifico3, l’autore riprende il principio secondo il quale è ritenuto disgustoso ciò che si separa dal corpo, confondendo il limite tra confine interno ed esterno: pus, sangue, mestruazioni, urina, feci, capelli, pellicine, unghie. Suscita disprezzo tutto ciò che si distacca dall’identità, che sfida il confine tra l’io e l’Altro, al limite tra io e non-io, per la sua qualità di essere liminale e indeterminato.
Una prospettiva che sembra illuminare gran parte dei quesiti sulla misoginia è quella che vede la trasposizione di questo principio a livello dello sguardo sociale: così come è disgustoso, deforme, mostruoso ciò che diventa esterno al corpo, così lo è ciò che si esterna e non fa parte di una determinata immagine sociale. Ciò che si separa quindi dall’esperienza egemone, considerata normata e quindi maschile, ma anche eterosessuale, cisgender e bianca, e si allontana da questo canone, viene interpretata come una visione distorta di ciò che la società è, e quindi una versione abietta e mostruosa di ciò che dovrebbe essere.
Appare mostruoso così tutto ciò che è al di fuori di questo rispecchiamento, con l’intento di confermare la condizione di normalità e ortodossia dell’esperienza egemone patriarcale. «Ci definiamo attraverso l’esclusione, rifiutando o umiliando gli altri per dimostrare che non abbiamo nulla a che spartire con i loro difetti» spiega l’autore all’interno di Spezzate, e aggiunge: «Esprimiamo cosa sia per noi una “brava ragazza” puntando il dito e respingendo le donne più sregolate e dissolute.»4
In Spezzate, l’autore si concentra particolarmente su questo concetto, analizzando la figura della trainwreck per argomentare come la violenza sistemica su queste donne sia alla base dell’affermazione dell’identità maschile eteropatriarcale. Trainwreck (titolo originale del testo, traducibile letteralmente come “incidente ferroviario”) è considerata la persona, ma più indicativamente la donna, che è uscita dai binari dell’ortodossia, dal percorso prestabilito, e per questo è destinata al fallimento, al disastro, all’agonia e al ripudio sociale. Secondo Spezzate, come collettività godiamo quando una trainwreck viene punita per aver trasgredito alla nostra idea socialmente condivisa di “brava ragazza”, con tutta una serie di casi studio su icone e celebrità femminili da Maria Antonietta a Britney Spears.
«Tutti noi coviamo un’insaziabile bramosia di rovina e sofferenza, specificamente femminili. E chi, come me, tende ad avere una lieve paranoia nei confronti del patriarcato, non può non notare che questo desiderio ha raggiunto livelli senza precedenti proprio ora che le donne stanno avendo un successo inedito, quanto a possibilità, visibilità e legittimazione pubblica.»5
Il disprezzo per le trainwreck appare quindi come un dispositivo che l’ordine eteropatriarcale aziona per mantenere il suo controllo sull’identità femminile. Uscendo da quei binari costrittivi, percorrendo strade non tracciate, al di fuori di ciò che la società le impone di essere, la donna diventa un abominio, un essere liminale, indefinito, mostruoso: proprio come succede alla protagonista di MAW, Marion, la cui metamorfosi in mostro accelera ogni volta che la sua sofferenza la porta a ribellarsi e autodeterminarsi. L’espediente perturbante della mostrificazione femminile è un tropo proprio del genere gotico che, come scrisse Rosi Braidotti, è spesso collegato all’inadeguatezza generata dalla non corrispondenza a determinati canoni di genere.6
Un’operazione di questo tipo, agli occhi di Doyle, non può che riecheggiare le finalità della caccia alle streghe nel mondo moderno, che tanto di frequente l’autore cita nei suoi scritti, non solo per le potenzialità immaginifiche e iconografiche del riferimento alla stregoneria, ma anche e soprattutto per le consequenzialità critiche annesse. Come sapientemente e ampiamente argomentato da Silvia Federici7, infatti, la caccia alle streghe è stata un efficace strumento coercitivo del potere egemonico, grazie al quale il sapere medico ha potuto consolidarsi e mantenersi nelle sole mani degli uomini, sopprimendo al contempo una polifonia di saperi di origine femminile.
Queste donne, che usarono per sé e per la loro comunità saperi curativi, erboristici e ostetrici, vennero raccontate dalla storia come mostri deformi e disgustosi che divoravano bambini e danzavano nude invocando il demonio; per aver sovvertito l’ordine patriarcale, divennero abominevoli, eretiche, spaventose, pericolose e ripugnanti, e per questo perseguitate e arse sul rogo. Una narrativa non tanto diversa da quella che, nella misoginissima Grecia Antica, che tanto ha inorgoglito la critica moderna considerare culla della cultura europea e occidentale, considerava le amazzoni mostri abietti da uccidere, massacrare e sterminare, per mano di uomini virili nelle scene eroiche dell’Amazzonomachia, per la sola colpa di preferire la caccia e il combattimento alla cucina e al parto della progenie.
Lo stesso principio per cui il corpo femminile è associato alla mostruosità vale per il corpo queer: l’alterità, l’essere diverso da, l’uscita dalle categorie e identità di genere, porta lo sguardo egemonico a de-umanizzare l’Altro, privandolo della legittimità dei suoi connotati identitari. Nel momento in cui si riappropriano della loro narrativa, le identità femminili e queer recuperano il potere esercitato sui propri corpi, autoaffermandosi con la forza della propria voce.
Parallelo interessante a quello della caccia alle streghe è anche e soprattutto quello con il corpo disforico, definito così dall’istituzione medica per collocare identità non conformi nella diagnosi di un disturbo, ancora una volta riflesso distorto di una normalità egemonica eteropatriarcale. In Sono un mostro che vi parla il filosofo di teorie queer Paul. B. Preciado riporta il suo discorso per una conferenza all’École de la Cause Freudienne di Parigi nel 2019, sostenuto davanti a 3500 psichiatri: «Io che, secondo la maggior parte delle vostre teorie, mi colloco al di là della nevrosi, sull’orlo o addirittura dentro la psicosi, incapace, secondo voi, di risolvere in modo adeguato un complesso di Edipo o vittima dell’invidia del pene. Ebbene, è da questa posizione di malato mentale a cui mi relegate che mi rivolgo a voi. Sono il mostro che vi parla. Il mostro che avete costruito con i vostri discorsi e le vostre pratiche cliniche. Sono il mostro che si alza dal lettino e prende la parola, non in quanto paziente, ma in quanto cittadino, in quanto vostro pari mostruoso.»8
Per combattere contro il controllo coercitivo al quale corpi e identità sono soggetti, occorre trovare il modo di combattere contro l’egemonia maschile: in MAW questo avviene in modo letterale, al termine della narrazione, sotto forma di una guerra contro gli uomini che si svolge sul piano concreto, fisico e spaziale. L’autore, però, non sta giustificando l’uso della violenza come risposta funzionale contro il patriarcato. «Dubito fortemente», scrive in Spezzate, «che si possa risolvere il problema delle trainwreck – ossia, del nostro morboso desiderio di vedere le donne soffrire o venire punite per aver trasgredito il limite imposto al loro comportamento in quanto donne – semplicemente distruggendo altri uomini.»9
Non è la guerra contro gli uomini ad essere la finalità di Maw, quindi, ma la guerra contro l’Umano, ovvero l’uomo universalizzato, l’identità sociale maschile, la scala dei valori imposta del machismo e la conseguente distinzione e sottomissione dei generi e delle identità.
Ciò che si può interpretare nel finale del libro è molto di più che un conflitto di gamma mondiale, e proietta la mostruosità femminile in un futuro postapocalittico distopico (o utopico?) in cui l’Uomo, come identità sociale, avrà cessato di esistere. Come scrisse Rosi Braidotti con echi profetici, «I corpi deformi hanno già attraversato il tunnel e ne sono venuti fuori. Se non proprio sopravvissuti, essi sono per lo meno reattivi nella loro capacità di compiere metamorfosi e quindi sopravvivere e farcela. Molti umani forse hanno invece attualmente seri dubbi sulla loro capacità di farcela. Per quanto riguarda i mostri, l’evento catastrofico […] è già avvenuto.»10
«Noi siamo l’Apocalisse», inneggia l’autore nelle pagine finali di Il Mostruoso Femminile, «le Furie risorte, la donna rossa che cavalca il suo drago all’orizzonte, perché sappiamo che donna e drago sono sempre stati la stessa cosa. […] Noi siamo la fine del mondo che era e il primo segno di quello che verrà, quando, nell’era dopo il patriarcato, saranno i mostri a dominare il mondo.»11
Davide Lunerti
- J. E. S. Doyle, MAW, tr. di L. Fantoni, Edizioni Tlon, Roma, 2023, pag. 46. ↩︎
- «FS [fantascienza, Ndr] è narrazione ed enunciazione dei fatti; è una maniera per modellare possibili tempi e possibili mondi – mondi materiali e semiotici che sono al contempo scomparsi, presenti, e di là da venire. D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019, pag. 33. ↩︎
- J. Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Milano, Spirali, 2006. ↩︎
- J. E. S. Doyle, Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano, tr. di L. Fantoni e A. Salomone, Edizioni Tlon, Roma, 2022, pag. 28. ↩︎
- Ibidem, pag. 30. ↩︎
- «Il genere gotico può essere letto come la proiezione femminile di un senso interiore di inadeguatezza. Gilbert e Gubart hanno sostenuto che nella letteratura inglese le donne hanno spesso descritto se stesse come esseri disgustosi e degradati.» R. Braidotti, Madri Mostri Macchine, Castelvecchi, Roma 2021, pag. 62. ↩︎
- S. Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni, 2015. ↩︎
- P. B. Preciado, Sono un mostro che vi parla, tr. di M. Balmelli, Fandango, Roma, 2021. ↩︎
- J. E. S. Doyle, Spezzate, op. cit., pag.188. ↩︎
- R. Braidotti, Madri Mostri Macchine, op. cit., pag. 67. ↩︎
- J.E.S. Doyle, Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne, tr. di L. Fantoni, Edizioni Tlon, Roma, 2021, pag. 262. ↩︎

