Di infanzia e altri segreti minori: una conversazione con Silvia Calderoni

Denti di latte, Silvia Calderoni
(Fandango libri, 2023)

Denti-di-latte_COPERTINADenti di latte, il romanzo d’esordio di Silvia Calderoni, attrice e performer romagnola, è un libro difficile da descrivere perché contiene un’intelligenza, una sapienza bambina che, in molti casi, non ci appartiene più. Bambina, si intende, nel senso più ancestrale e magico del termine. Silvia, la protagonista, vive a Lugo coi suoi genitori, lei e lui; ha cassetti pieni di cancelleria che le piace sistemare, sta per salutare per sempre le sue bambole, va controvoglia ai corsi di nuoto e può fare tutto quello che vuole, tranne ammalarsi. La sua è una infanzia assolutamente normale e, allo stesso tempo, naturalmente straordinaria: il suo sguardo curioso e la sua brillante immaginazione le permettono di leggere il mondo – il tempo, la morte – in maniera inaspettata ma, sicuramente, capace di risuonare in molti lettori e lettrici. Con una scrittura scarna ma precisa ed evocativa, Silvia Calderoni ci fa ritornare a quel mondo in cui il nostro piccolo corpo si muove ed esplora la realtà in tutte le sue sfaccettature, anche quelle per cui il braccio di una bambina può diventare un’ala o un ovetto kinder può mettere in comunicazione con dio. E tutto ha perfettamente senso.

Abbiamo pensato di parlarne direttamente con l’autrice per custodire quello sguardo luminoso che è riuscita a sprigionare da Denti di latte. Nella chiacchierata che abbiamo avuto, Silvia ha approfondito molti aspetti che hanno guidato la sua scrittura, dal legame con l’esperienza della scrittura del corpo a teatro, al recupero dell’infanzia come tempo portatore di segreti e visionarietà; segreti che, ci suggerisce, è importante mantenere anche da adulti.

La prima curiosità che mi è venuta sapendo dell’uscita del libro è stata questa: tu sei un’attrice e performer da tanti anni, dunque quando e da dove è nata l’esigenza di scrivere un libro? Che significato ha questa esperienza di scrittura all’interno della tua ricerca?

Il desiderio di scrivere un libro è stato da una parte incentivato da Lavinia e Tiziana, l’editor e la direttrice editoriale di Fandango libri, che da un po’ di tempo mi punzecchiavano proponendomi di fare un esperimento e confrontarmi con questo tipo di dispositivo. Questa idea mi ha girato in testa per un po’ di tempo e così ho iniziato da una pagina bianca, senza troppe aspettative, osservando cosa accadeva nel frequentare quello spazio come frequento una sala prove di teatro. Un po’ mi sono approcciata nello stesso modo, anche se dal 3D mi sono spostata al 2D. Durante queste frequentazioni delle pagine bianche, poi, ho iniziato a provare un certo piacere e, siccome il piacere è uno dei motori principali della mia produzione artistica, mi sono convinta ad andare avanti. E mi sono sorpresa di come la scrittura della scena e quella del romanzo fossero in qualche modo affini: nonostante i parametri e l’esercizio della prima abbiano una lingua altra rispetto a quello della scrittura su carta, ho potuto trasferire nella seconda delle linee pratiche legate alla scrittura scenica. Inoltre, è stato interessante provare a confrontarmi con le regole del romanzo. Ad esempio, una cosa molto semplice è il fatto che una parola è prima o dopo un’altra: in sala questo non accade, non c’è un gesto prima o dopo un altro, per cui puoi permetterti di scrivere contemporaneamente su diversi livelli. Non mi interessava però fare un esperimento di scrittura in cui la pagina era divisa in quattro e c’erano quattro voci contemporanee: volevo rimanere fedele a una regola che è la scrittura lineare, e questa cosa mi ha costretta a un ordine che poi è diventato materia stessa del libro.

Temporalmente, la scrittura di questo romanzo coincide anche con il periodo del Covid, periodo in cui la scrittura nelle sale, quindi la scrittura del corpo, non era possibile e i teatri erano chiusi. Questa cosa probabilmente ha fatto affluire dentro la scrittura del romanzo tutto quel tipo di energia proveniente della pratica che facevo già dentro la sala. La scrittura è andata avanti anche quando si è riaperto e abbiamo ricominciato a lavorare, ed ho continuato e portato a termine il lavoro. Penso che questo si rifletta nel libro: a un certo punto io leggo dei cambiamenti interni, anche nel modo in cui scrivo. Ad esempio, nel modo in cui la prima parte si svolge più dentro ad ambienti chiusi e poi arrivano degli esterni nella seconda. Probabilmente questa è stato un po’ una conseguenza dell’esperienza che tutte e tutti abbiamo vissuto in quel periodo.

Hai intercettato quella che era la mia seconda domanda, che riguarda appunto la la relazione che c’è, per te, tra la scrittura drammaturgica e quella del romanzo.

Posso aggiungere che la scrittura della scena è, sì, scrittura drammaturgica, ma anche scrittura del corpo. Nel libro provo a metterla insieme, volente o nolente, ad una forma di sapienza che deriva dai tantissimi anni di lavoro col corpo in scena. Questa sapienza entra in modo molto dichiarato dentro al libro e spero emerga: ci sono dei corpi, c’è il corpo della bambina che scrive, l’unità di misura diventa il suo avambraccio e questo aspetto è molto legato al mio lavoro in scena. Più che la scrittura drammaturgica, mi si avvicina la scrittura del corpo.

È interessante notare che il romanzo non è diviso in capitoli, ma in atti. Ogni atto mette in scena vari momenti della vita di una bambina nata negli anni ’80 in una famiglia della classe media di una cittadina romagnola. All’interno di questi momenti quotidiani, la protagonista attua dei rituali di bambina intrisi di pensiero magico che confondono il piano della realtà con quello dell’immaginazione. Rituali del tipo: se faccio bene questo, secondo le regole, allora qualcos’altro si può avverare. È un meccanismo che ti è riuscito molto bene, chi legge rimane incantato o incantata da questo gioco con cui Silvia indaga la realtà. La mia domanda è: quale sforzo di immaginazione hai dovuto fare per ripescare ricordi e visioni di bambina così precisi, pervasi di stupore e pensiero magico?

Sono delle scaglie, schegge di ricordi che non ho mai abbandonato. Penso che in realtà lo sforzo è stato fatto in tutti questi anni, nel tentativo di salvare quella parte che mi permetteva di immaginare avendo pochi elementi. Credo di ritornare un po’ al discorso di prima dicendo che non faccio qualcosa di eccezionale, ma quello che normalmente faccio in sala prove: dati degli elementi semplici, produco immagini che vengono portate avanti o vissute da a me o da altri corpi di performer che vivono la scena. Quindi continuo a muovermi nello stesso modo anche dentro la scrittura.

È la prima volta che qualcuna utilizza la parola magia, mi piace molto. Una cosa che ho scoperto dopo la scrittura del libro è che quel tipo di giochi e di distorsione della realtà sono pratiche comuni di bambini e bambine, che ognuno e ognuna di noi pensa di aver fatto in solitudine, e in qualche modo è così, ma che hanno vissuto in tanti e tante. Questa è la capacità dei bambini e delle bambine di trasformare il mondo attraverso pratiche che adulti e adulte non considerano come portatrici di potere trasformativo. Penso sia una cosa molto interessante, che porta anche un grande insegnamento, cioè che il potere generativo e trasformativo sta dentro agli occhi e all’immaginazione, non solo negli elementi che abbiamo attorno. Questo è anche il motivo per cui mi sono dedicata al tempo dell’infanzia e non a quello dell’adolescenza. Durante quel tempo i bambini e le bambine sono pieni di segreti: nell’infanzia il segreto è portato senza essere ancora torbido, non c’è giudizio rispetto ad esso. E il gioco è strettamente legato e vive attraverso il segreto. Per me è molto importante il fatto di ritornare ad avere dei segreti non torbidi, che invece siano generativi e portatori di visioni e visionarietà.

Gli adulti sono figure secondarie nel tuo romanzo e, chiaramente, il loro mondo ha regole diverse da quelle del mondo di Silvia. Pensi che l’infanzia sia uno stato dell’essere privilegiato per comprendere la realtà?

Non utilizzerei la parola privilegio, che penso che abbia a che fare con tutt’altro, soprattutto in reazione chimica col presente. Sicuramente c’è uno sguardo che è ad un’altezza diversa: da un punto di vista cinematografico, la telecamera è leggermente più bassa rispetto a dove il punto camera viene messo al cinema. Qui è all’altezza degli occhi della bimba, quindi lo sguardo non è parallelo al pavimento, ma è inclinato verso l’alto. Per guardare gli adulti è necessario alzare la testa, fare un movimento col collo e quindi nell’inquadratura risulta esserci principalmente cielo, non pavimento. Semmai il pavimento ritorna nel momento in cui la bambina abbandona la vista di queste comparse (mi piace chiamarle così, perché lo sono veramente all’interno del mondo di Silvia): lei, lui e le altre poche persone che vengono in qualche modo intercettate. È bello, secondo me, che vengano presi come dati di fatto:  così come ci sono i mobili, ci sono gli adulti. Non sono una presenza altra e vengono vissuti come fossero una specie animale diversa con cui condividere la zona di abbeveraggio. Non so se è così, non ho affrontato questo libro facendo studi sull’infanzia, non insegno a teatro, non ho esperienza adulta legata al mondo dell’infanzia, questo è importante dirlo. È qualcosa che io vado a ripescare da lontano senza aver fatto approfondimenti e senza aver fatto ricerca rispetto al mio passato. Tutto ha a che fare con quel magazzino di ricordi un po’ imballati nel multiball che io ho e ognuno di noi ha. Tuttavia, mi sono approcciata a questa materia in modo molto distaccato dal punto di vista emotivo, ricostruendo un set in cui è possibile far vivere questi segreti, che tali rimangono, e il fatto che non vengano mai svelati costituisce la possibilità di nuova invenzione. In tanti mi hanno detto: mi hai fatto ricordare, lo facevo anche io. Chissà quanti ne ho persi di questi segreti! Alcuni, infatti, sono inventati sulla falsa riga di quelli che mi ricordo che praticavo o che mi ritrovo a praticare tutt’ora. Sembrerà stupido, però a volte mi ritrovo a fare le scale e pensare: la porta si è chiusa, qualcosa cambierà. Qualcosa mi è rimasto dentro di questo strano modo di vivere l’ambiente ed è bello, secondo me, cercare di riesumare e rivivere questa relazione con l’ambiente così magica, appunto.

Il romanzo si apre con il suono di una radiosveglia e Silvia che si ritrova nel suo regno per eccellenza, quello del sonno: lei dice che lo può controllare, vivere nell’interstizio tra il qui e il lì, nel nero luminoso che è gravido di possibilità creative. L’artificio del sonno, del nero luminoso, ritorna spesso nel romanzo. Perché hai scelto di raccontare l’infanzia tramite questa intuizione?

Perché, per me, quell’esperienza totalmente privata, che è quella degli occhi chiusi nel buio, è sempre stata uno spazio di interesse, che aveva a che fare con qualcosa di inspiegabile: quell’attimo prima di addormentarsi, che inizia a cavalcare una parte dell’io, dove tutto si materializza e smaterializza velocemente. Molto spesso, da piccola, premevo gli occhi per avere quei luccichii che mi permettevano di entrare in un’altra realtà. Questo ha a che fare con lo stesso set in cui ti ritrovi quando nasci e ti scopri a vivere: nel momento in cui chiudi gli occhi hai la possibilità di ridisegnarlo a tuo piacimento. L’ossessione per quel nero luccicante e fiammeggiante si ripresenta perché quello è il mio luogo – e qui ritorno ancora alla pratica del teatro. Il teatro ha il nero come base: quando sei al buio – in modo un po’ romantico, ma di questo si tratta – è la luce poi che ti permette di far stagliare figure e mondi che non esistono. È l’utilizzo di quella luce, di quel flash, del fiammeggio, del faro che ti permette poi di produrre quella magia di cui parlavi. Durante quel momento, nel letto, prima di cadere nel sonno, ritorna questa possibilità di vedere affiorare [nuove figure e mondi, ndr]. Sonno e sogno, poi, sono questioni diverse e io non tratto il sogno, ma quel tempo subito prima o subito dopo: quella posizione liminare tra i due luoghi.

Ritorno adesso al tema del corpo, che penso sia  un elemento portante della tua scrittura in questo romanzo. Infatti Denti di latte è un romanzo fortemente agito. Quello di Silvia è un corpo che reagisce alla realtà ed è lo strumento che sostiene la sua lingua per raccontarla. Inoltre, hai parlato prima di specie animali, e in effetti si nota che i corpi che abitano questo romanzo sono spesso ambivalenti e plurali, talvolta con sembianze animalesche: penso a quando Silvia si vede le zampe di coniglio al posto dei piedi, o ai bambini in piscina che lei chiama anfibi, o i compagni di atletica che vede come gnu e antilopi. Poi ci sono corpi doppi: succede spesso che Silvia si sdoppi e a un certo punto tu parli di corpi gemelli”, che si dividono e si scrutano. Cosa ha a che fare questo corpo ibrido, talvolta animale, talvolta doppio, con l’infanzia?

Questa cosa è un po’ entrata in modo involontario nel momento in cui scrivevo, e quindi nel momento in cui improvvisavo – io vivo la scrittura come un momento di improvvisazione, in cui ho degli elementi e poi delle cose arrivano. In quel momento ci sono dei ritornanti, cose che non hanno a che fare con quel magazzino di ricordi di cui ti parlavo prima. Non è che da bambina avevo particolari visioni rispetto alla trasformazione del corpo in un corpo animale. Queste metafore sono state per me un modo per allontanare l’idea della perfezione del corpo concepita solo come percezione umana del corpo. Ho, piuttosto, questa informazione che mi rimane in quel magazzino dei ricordi in cui il corpo viene percepito in quanto tale, non in quanto corpo umano. Questa è una percezione che arriva più tardi, forse nell’adolescenza, quando il corpo cambia e lì inizi a fare i conti con il corpo in quanto corpo umano. È un corpo, quello che provo a mettere in campo, che ha a che fare con tanto altro. Spesso, quindi, la metafora non umana mi permette di far riaffiorare quello stupore di una bambina che utilizza il corpo e scopre come questo reagisce rispetto al set-mondo in cui è inserito. E quindi abbiamo la coda di biscia, i piedi di coniglio, le gazzelle e tutta una serie di cose che vanno a sottolineare il fatto che il metro non sono gli adulti. Il metro è l’avambraccio di quella bambina e gli adulti sono qualcosa che è presente come se fosse veramente una specie amica, perché non è vissuta in modo particolarmente riottoso.

C’è, poi, la mia necessità di usare l’immaginazione e vedere come il corpo si può sdoppiare e modificare, come un braccio può diventare ala e come si possono distorcere  alcuni aspetti della realtà. In realtà, poi, non è che sono davvero  distorti: è semplicemente il tempo che fa sì che poi tu metti tutto in fila e quindi inizi a considerare l’immaginazione, la distorsione e la lettura del mondo fatta in quel modo come qualcosa che ha a che fare col gioco dell’infanzia, qualcosa che devi abbandonare per diventare adulto. E invece sarebbe bello potersi riprendere quello spazio e quella libertà, e rendere l’immaginazione uno degli elementi fondativi della nostra percezione del reale. Questo dipende anche da come siamo educate e educati alla percezione, il modo iperrealista probabilmente ha a che fare col luogo in cui siamo nate e nati; in altre parti del mondo magari non è così. La visione occidentale è molto stretta rispetto a questo e a un certo punto rischi di perderlo [questo gioco di distorsione della realtà, ndr]  perché non è nella lista delle priorità.

C’è una frase nel tuo libro dove dici mi muovo comoda in questo nero che ci raddoppia, ci fa dono delle ombre che vivono a terra, perennemente legate alle nostre scarpe”. La prima parte della frase l’abbiamo un po’ sviscerata. La seconda mi riporta, invece, alla figura di Peter Pan, quel folletto emblema dell’eterno bambino che ritorna nel romanzo. La sua presenza mi ha fatto pensare al tema del tempo, che abbraccia un po’ tutti regni di Silvia. Spesso pensa di poter bloccare il tempo, a volte di esserne più veloce, altre lo percepisce lungo, lunghissimo, come quando racconta dell’estate dai nonni. A questo tema credo si associ anche quello della morte, che ritorna nei giochi col padre, e quello del crescere e diventare grandi. Penso a quando Silvia piange perché sa che un giorno crescerà e non vorrà più bene alla mamma, allora scrive un biglietto per fermare il tempo a quando, ancora, le vuole bene. È, questo tuo romanzo, un tentativo di bloccare, cristallizzare il tempo dell’infanzia? 

Allora, Peter Pan è una di quelle cose che sono entrate dalla finestra, senza l’intenzione. Ogni tanto c’è anche qualche riferimento a Pinocchio, come alla parte finale: la pioggia, la balena. Ci sono queste due figure che tornano, sia perché hanno a che fare con la narrativa per quell’età, sia perché sono due figure che per me hanno a che fare col mito rispetto a quel periodo della vita. Però sono riprese in modo molto delicato, come se fossero degli echi lontani, perché poi in entrambi i casi le rifai tue rispetto a come ti risuonano.

Rispetto alla questione del tempo, l’ossessione dell’orologio è presentissima. Oltre alle cose che hai giustamente nominato, c’è questo tentativo che ho fatto, nella parte finale, di velocizzare il tempo: la narrazione inizia ad andare velocissima, ci sono mesi dentro un viaggio in macchina, la lancetta del tempo è spanata. Utilizzo spesso questa espressione perché mi arriva questo ricordo di una percezione del tempo totalmente diversa da quella che ho adesso. Non in modo nostalgico, ma sempre come una possibilità di modificare la percezione del tempo totalmente lineare che abbiamo ora, in cui il tempo dell’orologio determina principalmente il tempo della vita. Credo che, nell’infanzia, un tempo così preciso, in cui il secondo è una unità di misura che batte la velocità, salti totalmente. Ritorno spesso alla questione dell’unità di misura perché credo che ci sia un motivo per cui i bambini ci mettono tanto, a scuola, a capire il metro, il tempo: il motivo è che la necessità di misurare è qualcosa che arriva dopo, che ti insegnano, altrimenti non ci sarebbe questa urgenza di misurare tutto. Quella è un’esperienza che noi non possiamo più fare, ma che i bambini fanno e penso che il loro sia uno stato di beatitudine.

Poi, la questione della morte. Parlare di morte e di infanzia in questo momento storico penso ci faccia fare un salto mortale. Al di là di questo, i bambini chiedono, non è qualcosa che scopri ad un certo punto, ma che c’è fin dall’inizio e ho cercato di trattarla allo stesso modo in cui viene trattato il resto, senza lasciare zone di non trattato. Mi sento molto fortunata perché ho fatto, sto facendo e continuerò a fare un lavoro, quello delle arti sceniche, in cui c’è talmente tanto me stessa dentro, che non ho avuto la necessità di scrivere il libro in modo terapeutico. Ero totalmente libera, invece, di affrontare in modo completamente altro, anche un po’ algido e leggero, argomenti giganteschi: l’io, la morte, i genitori, l’infanzia, il tempo. L’esercizio che mi sono imposta, fin dall’inizio di questa scrittura, è stato cercare di non descrivere l’esperienza dell’infanzia tramite lo sguardo di un’adulta, ma fare un salto cercando, per quanto possibile, di ritornare lì in quel tempo. Per questo credo ci sia tanto scarno, tanto frammentato: perché a volte, se per necessità narrativa dovevo inserire lo guardo un adulto che descriveva i bambini, ho preferito non metterlo. L’altro dei due punti fondamentali è stato il tentativo di non infantilizzare l’infanzia. E sono molto legate le due cose, perché infantilizzare è quella cosa che gli adulti fanno: prendono quell’infantile un po’ alleggerito e lo mettono da un’altra parte, come se non si potesse mai  trattare cose profonde. Invece secondo me l’infanzia è un tempo in cui si trattano cose profonde, in modo diverso.

Specifichi che non è un romanzo autobiografico: eppure la protagonista si chiama come te e ha alcune cose in comune con te: il nome, l’infanzia a Lugo… che rapporto c’è tra la Silvia autrice e la Silvia protagonista di questo romanzo?

Sono molto legate e in modo abbastanza dichiarato visto che i luoghi, i nomi delle persone e come le descrivo sono reali. In questo senso ritorna l’immaginazione cinematografica di cui ti parlavo prima: il set, le comparse, i canovacci sono quelli, poi succede qualcosa che ha a che fare con l’atto creativo. Il mio non è il tentativo di fare un documentario, ma di fare un film. Dato che la scrittura ti permette di avere i protagonisti e i luoghi che vuoi, allora li mantengo. A un certo punto, una volta finito, mi sono chiesta: cambio i nomi? Toglievo Silvia, mettevo Roberta e tutto funzionava uguale. Avrei potuto cambiare tutto per scivolare via da questa situazione un po’ ambigua, ma alla fine la questione non era quella, perché per me è veramente tutto pensato come se fosse un set in cui ci sono dei ciak. Ad esempio, l’atto ambientato alla festa dell’unità ricomincia tre volte e per me valgono e sono reali tutti e tre gli inizi. Sì, il libro ha a che fare coi miei ricordi, ma autobiografico è un’altra cosa per me. Ho fatto una grande pulizia, non ho inserito niente di tutto ciò che per me poteva essere pruriginoso, cioè che dava delle informazioni in più rispetto alla mia vita privata e che non serviva al romanzo. Non sono proprio partita dall’idea di fare una cosa autobiografica, accade piuttosto qualcos’altro: avevo bisogno che non fosse la mia vita, ma anche la tua.

Intervista a cura di Beatrice Palmieri

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