I violini di Saint Jacques: fascino e decadenza nelle Antille francesi

I violini di Saint-Jacques, Patrick Leigh Fermor
(Adelphi, 2023 – Trad. D. V. Filippi)

violiniDato alle stampe per la prima volta nel 1953 e trasposto in opera lirica nel 1966, I violini di Saint-Jacques è l’unico romanzo scritto da Patrick Leigh Fermor, autore inglese di racconti di viaggio. Riedito da Adelphi nella traduzione di Daniele V. Filippi, si apre come un resoconto di viaggio: con una mappa delle Antille francesi e, in particolare, dell’immaginaria isola di Saint-Jacques.

Sebbene quest’opera di poco più di cento pagine si presenti subito come un racconto dell’arcipelago caraibico, è su un’altra isola che comincia la narrazione, una terra emersa molto lontana da quella che è scenario indiscusso di questo libro: l’isola di Lesbo. Qui un giovane uomo, che narra in prima persona, incontra per la prima volta Berthe de Rennes, una mademoiselle che ha ormai passato i settant’anni e che spende le sue giornate tra il fumo e la pittura di realistici acquerelli paesaggistici au bord de la mer. La donna, originaria delle Fiandre, è affascinante ed enigmatica: ha viaggiato molto e, tra i muri spessi e imbiancati di casa sua, ha accumulato una nutrita quantità di racconti al limite del credibile, come quelli riguardanti certe lezioni a Cagliari in epoca prefascista.

Tuttavia, il perno non troppo celato delle narrazioni di Berthe, nonché della sua vita stessa, rimane sempre Saint-Jacques, una delle isole delle Antille francesi, nel bel mezzo del Mar dei Caraibi, che nessuno ha più nominato né sentito nominare dai primi anni del Novecento. Il giovane uomo è appena tornato da quei mari, e rimane colpito da un grande acquerello dipinto dalla signora che ritrae quest’isola sconosciuta. C’è un lungo molo, alcune golette, diverse donne inturbantate che vendono frutti dai colori accesi, uomini bianchi e neri, statue rococò dai gesti solenni, molte piramidi di canna da zucchero e, sopra la città, una foresta tropicale che si arrampica sulle pendici di un cratere a forma di cono, da cui si innalza un flebile pennacchio di fumo. È La Salpêtrière, il vulcano su cui sorge Fort de Plessis, la città principale dell’isola.

Berthe si trasferisce a Saint-Jacques da ragazza, per fare da istitutrice a dei ragazzi poco più giovani di lei, i figli di un suo lontano cugino, il Conte de Serindan. L’uomo è proprietario della tenuta più ricca e vasta dell’isola, e fa parte dell’oligarchia orgogliosamente creola di Saint-Jacques, una «minoranza felice, patrizia e leggermente provinciale» che diventa presto la famiglia adottiva di Berthe. Inizialmente la donna dipana la matassa dei sei anni trascorsi nelle Antille mostrandone soltanto dettagli da antica Arcadia: sull’isola la natura è rigogliosa e sensuale, e costituisce lo sfondo di passatempi lussuosi, rilassati e cristallizzati nel tempo della sua giovinezza:

Le coorti di servitori neri, i balli e le corse, le lunghe gite in processioni di venti o trenta carrozze; i picnic nei pressi del cono sempre fumigante della Salpêtrière, gli amori, i litigi, i duelli […]; la scintillante vita al coperto nella stagione delle piogge; i pigri pomeriggi sulle amache sospese fra i manghi e le notti torride sotto padiglioni di candida mussola.

L’istitutrice e i suoi giovani cugini vivono nel lusso dell’aristocrazia creola, immersi in un Eden esotico sulle pendici del vulcano, certi che le loro esistenze non saranno mai turbate da tempeste. Persino l’innamoramento di Sosthène, il figlio maggiore del conte, nei confronti di Berthe viene da lei minimizzato, e presto la disperazione del giovane per il rifiuto viene cancellata dalla sua partenza per la Francia, dove continuerà gli studi. A quel punto Berthe è rimasta sull’isola con la sorella di lui, Joséphine, e può bearsi dell’amore saffico che prova nei suoi confronti.

Per Berthe e Joséphine era una regione miracolosa, sospesa nello spazio, in cui tutto – le foreste, il mare, l’aria e il tramonto – si univa in una cospirazione favorevole. «Può sembrare un po’ sciocco,» Mademoiselle Berthe si interruppe all’improvviso «ma è stato il periodo più felice della mia vita. Avrei voluto che durasse per sempre. Non chiedevo di più».

L’idillio caraibico, però, non è destinato a durare. Joséphine intraprende una relazione con il figlio del nuovo governatore dell’isola, che è più anziano di lei e, soprattutto, ha modi languidi che non piacciono a Berthe. Oltretutto, il padre del ragazzo, monsieur Sciocca, è antagonista del conte de Serindan e, più in generale, dei neri e dei creoli di Saint-Jacques. Pertanto, Berthe cerca di allontanare i due innamorati.

Il racconto si avvolge a spirale intorno al fatidico ballo del Martedì Grasso dell’anno 1902, in un ritmo serrato e febbrile che, tuttavia, occupa gran parte del libro. Quella sera hanno luogo una serie di detonazioni crescenti, in un climax di gravità e immanenza da cui si è inevitabilmente catturati. Dapprima Sosthène, tornato dalla Francia, minaccia il suicidio in caso di un ulteriore rifiuto da parte di Berthe. Successivamente, la protagonista scopre la fuga di Joséphine con il figlio del governatore, di cui da poco si sa che ha una moglie ad attenderlo in Europa. L’istitutrice, Sosthène, e uno dei loro servitori mulatti stanno per partire alla ricerca disperata della ragazza, al fine di evitarle l’umiliazione della bigamia e la conseguente vita infelice, quando il conte di Serindan confessa a Berthe un secondo terribile segreto. Alcuni tra i più concitati ballerini, alla fine della festa, si sono rifiutati di togliersi la maschera che ne nascondeva il volto. Soltanto dopo una tentata fuga sono costretti a mostrarsi, rivelandosi malati di lebbra fuggiti dalla Désirade, la principale colonia sanatorio nelle Indie Occidentali francesi. La promiscuità data dal ballo e dall’alcol, nonché dai rapporti ravvicinati e spesso intimi avvenuti durante la festa, rischiano di aver propagato il morbo tra tutti gli invitati, destinati a rimanerne inconsapevoli attendendo la manifestazione dei primi sintomi.

La deflagrazione finale, per certi versi, è annunciata da tempo, e Berthe è l’unica spettatrice che sfugge alla tragedia. Dopo una lunga corsa fino al porto, l’istitutrice sale su una nave insieme a Sosthène e al servitore credendo che fosse quella che avrebbero usato i due amanti per fuggire clandestinamente in Europa. Tuttavia, i fuggiaschi non si trovano lì, bensì sulle pendici del vulcano, diretti verso il porticciolo al lato opposto dell’isola. Berthe è l’unica che rimane a bordo, nel caso si fosse rivelato necessario rincorrere Joséphine via mare, mentre i due uomini ripartono alla caccia via terra.

È dalla barca, dunque, che Berthe assiste ad una serie di eruzioni particolarmente violente della Salpêtrière. Inizialmente conserva la speranza che i suoi cari si possano salvare dalle fiamme, che possano fuggire verso il molo, dove lei è all’ancora con l’imbarcazione. Presto, però, diventa evidente che la salvezza è loro preclusa. Il vulcano esplode sotto gli occhi della giovane e l’intera Saint-Jacques si inabissa per sempre. Ecco svelata la drammatica fine di una piccola isola «infilata come una perlina sul sessantunesimo meridiano».

La narrazione di Berthe è terminata, parte della sua vita appartiene ad un tempo e ad un luogo che nessuno potrà più conoscere e che andrà inevitabilmente dimenticato. Per lei non ci fu un seguito degno di nota, dopo che l’isola si fu inabissata. Il trauma risultò ancora più grande e complesso da elaborare per via della completa scomparsa di tutte le altre persone che si trovavano a Saint-Jacques nella notte di quel fatidico Mardi Gras, e che vi avevano vissuto, nonché di qualsiasi traccia dell’isola.

Dopo un momento in cui si è portati a credere che tutto sia ormai perduto e dimenticato, il narratore svela una nuova speranza:

L’anno scorso, quando ero a Dominica e Guadalupa, alcuni pescatori mi hanno raccontato che chiunque percorra la rotta orientale fra le isole in tempo di carnevale può sentire un suono di violini che affiora dalle acque. Come se ci fosse un ballo in grande stile sul fondo del mare.

La drammatica fine di Saint-Jacques sembra inevitabile nella sua storia. Il mondo che rappresentava, in cui convivevano i discendenti degli schiavi neri, ora diventati ornamento delle case dei ricchi occidentali, insieme ad un’aristocrazia francese anacronistica e decadente, si esaurisce bruciando e inabissandosi in meno di una notte. Nel mezzo di intrighi romantici e precari equilibri politici, la minaccia del suicidio del figlio primogenito del conte, la potenziale bigamia del figlio del governatore, la conseguente faida tra il conte e il governatore stesso, il rischio della lebbra, è la natura che prende il sopravvento, quasi fosse necessaria una purificazione.

Soltanto a tratti la suspense rischia momentaneamente di implodere su sé stessa, per via dell’ampissimo spazio che è dedicato alla narrazione della preparazione e della festa del Mardi Gras: quasi l’interezza del romanzo. Durante il resto del romanzo Fermor si diverte a passeggiare tra scene acquerellate delle Antille francesi, giocando con le suggestioni di un mondo decadente ed edenico al tempo stesso, per certi versi, simile a quello del racconto Musica per camaleonti di Truman Capote.

Dopo aver ruotato a lungo intorno a Maman Zélie e al Re Diavolo, due degli animatori delle scene del carnevale antillano, la narrazione si scioglie, in un moto liberatorio e purificatore. L’epilogo dell’isola è terribile, ma l’atmosfera di un mondo finito per sempre non fa che acuirne il fascino, grazie alle avvolgenti descrizioni. Ai toni che rimandano al passato perduto, all’Arcadia solenne, si accostano in modo sensuale e ammaliante le atmosfere goticheggianti e arcaiche dei riti e delle feste tribali. Fermor è attento nel descrivere con veloci pennellate un paesaggio inventato ma realistico, dai toni cupi e coloratissimi al tempo stesso. Le immagini sono meravigliose e sensuali, e hanno in sé il fascino delle fotografie di inizio secolo: guardandole si intuiscono lo sfarzo, la musica, il profumo dei fiori e delle vivande, ma vi si rimane inevitabilmente esclusi.

Eleonora Mander

Immagine di copertina: AG2016.

Lascia un commento