Alcesti o la sindrome della crocerossina

Breve orazione sull’attualità della tragedia greca

Esiste – e credo nessuno oserà contestare questa verità universalmente nota – una certa categoria di donne che prova piacere nell’annullare se stessa per il bene della persona amata.

Parallelamente, esiste una certa categoria di uomini che ha bisogno di avere al suo fianco una donna pronta ad annullarsi.

Di tale ripartizione non sono certo stata la prima ad accorgermi: si può dire anzi che nessuno di noi moderni ha mai scandagliato per primo una piega dell’animo umano che non fosse già stata analizzata dagli antichi: in particolare, la Sindrome della Crocerossina è stata mostrata al mondo per la prima volta (da che ci è dato sapere) da quel geniaccio di Euripide, tragediografo e giocatore per eccellenza, l’uomo che ha amato più di tutto il resto mettere in disordine le cose.

E sì che di disordine ce n’è da vendere, nelle tragedie e nelle tragicommedie di Euripides_Pio-Clementino_Inv302Euripide: basti pensare alla figura cangiante di Elena, docile nella ilarotragedia omonima e altera e dominatrice nelle Troiane; o alla stringente misoginia dell’Ippolito incoronato che pare in aperto contrasto con altri punti dell’opera dell’Autore, che spesso è stato definito quasi “femminista”. Chi si sofferma su queste sottigliezze non ha colto il vero senso dell’opera di Euripide; il cui scopo è ben lontano dalla mera volontà di istruire il pubblico sulle vicende di quello o quell’altro eroe mitologico: Euripide vuole mostrarci noi stessi su un palcoscenico, e poco gli importa dei nomi con cui ci chiama di volta in volta.

Strumento fondamentale di questo processo è l’ironia, così sottile e impercettibile, con cui Euripide stravolge miti e canoni letterari di dramma in dramma; fino a provocare, come lo accuserà Nietzsche secoli dopo, la morte della tragedia.

Ma torniamo alle nostre crocerossine e ai loro assistiti, di cui Euripide s’è ampiamente occupato nell’Alcesti.

Tale dramma rientra nella controversa e discussa categoria delle ilarotragedie: vicende che iniziano in maniera drammatica e cupa e si concludono, poi, piuttosto bene.

Alcesti, Ercole e Cerbero, IV sec., Roma, Catacomba di via Latina
Alcesti, Ercole e Cerbero, IV sec., Roma, Catacomba di via Latina

Nel caso in esame, Alcesti è il nome di una dolce fanciulla (e regina di Tessaglia, tra parentesi, ma questo poco importa) sposata ad un tale Admeto, omuncolo che passa la sua vita (oltre che a regnare sulla suddetta Tessaglia) ad ospitare gente e a pensare profondamente a se stesso. Riassumendo la vicenda euripidea, accade un giorno che, per una serie di vicissitudini legate alla sua unica qualità (ossia l’ospitalità), Admeto ha la possibilità di rimandare il momento della sua morte, se solo riuscirà a trovare qualcuno disposto a sacrificarsi al suo posto. Admeto, campione di altruismo, ha la faccia tosta di chiedere questo favore da nulla a tutti i suoi conoscenti, persino ai suoi genitori, che, per quanto siano vecchi, non hanno nessuna intenzione di lasciare il mondo prima del tempo. L’unica persona che accoglie la sua richiesta è la moglie Alcesti, che muore tra i paradossali lamenti del marito. Ad addolcire il finale della vicenda ci pensa ancora una volta l’ospitalità di Admeto, che non esita ad offrire rifugio ad un Ercole di passaggio nonostante si sia ancora nel pieno della veglia funebre di sua moglie. Ercole, dopo aver gozzovigliato un po’, scopre la disgrazia che sia è abbattuta sulla casa di Admeto e in un paradossale duello con la morte riporta a casa Alcesti.

Il punto focale della storia, ossia il sacrificio di Alcesti, Euripide non lo racconta e lo tiene da parte, dandolo quasi per scontato. Chiunque conosca un’Alcesti e un Admeto, infatti, non ci metterà molto a figurarsi come è andata la scena: più interessante è la scena in cui tale sacrificio si consuma.

Ci si aspetterebbe che Admeto non abbia il coraggio di guardare in faccia Alcesti nel momento in cui muore, sopraffatto dalla vergogna e dal senso di colpa: invece, in un’escalation dell’assurdo, Admeto piange disperato al capezzale di Alcesti implorandola di non lasciarlo.

Ecco alcune delle citazioni più improbabili nell’ora estrema, tutte da parte di Admeto in un serrato dialogo con la moglie delirante (che non gli risponde se non con la cronaca delle sue allucinazioni, probabilmente per evitare di dirgli brutte parole proprio all’ultimo minuto).

“Nulla abbiamo fatto contro gli dei perché tu debba morire!”

“Fatti forza, non abbandonarmi, prega gli dei che abbiano pietà.”

“Che destino ci è toccato, che destino!”

“Questo tormento è peggiore della morte. In nome degli dei, in nome dei tuoi figli che resteranno orfani, non abbandonarmi, alzati, resisti! Se tu muori io non posso vivere, la mia vita e la mia morte sono legate a te, perché ti amo, Alcesti.”

(traduzione di Maria Grazia Ciani)

Alcesti (1)
“La morte di Alcesti”, Angelica Kauffman

 

Tutto come se Alcesti stesse morendo per uno scherzo del destino, insomma. Se n’è fatta di strada dai tempi in cui Achille preferiva una vita breve e gloriosa ad una lunga e anonima: si direbbe quasi che a morire, in quel momento, non sia solo la candida Alcesti; ma la figura tradizionale dell’eroe greco bello e buono, coraggioso e assetato d’onore.

E Alcesti che ne pensa? Nel suo discorso d’addio non c’è una parola di biasimo per il marito: solo, un dolce invito a non prendere un’altra moglie dopo di lei. È in questa richiesta che la protagonista si rivela come la più becera e petulante delle crocerossine: una fanciulla con la sindrome della crocerossina, infatti, non fa mai nulla per nulla, per la pura gioia di aiutare l’altra persona. Lo fa per il piacere di crogiolarsi nel dolore di quell’altro che la vede agonizzare, lo fa per rendersi unica e indimenticabile, per soffrire con la consapevolezza di essersi posta su un piano morale superiore a quello del resto del mondo. Ed ecco che in questo dialogo  anche il briciolo di simpatia che il lettore poteva provare per Alcesti scompare.

Il peggio, però, deve ancora venire: entra in scena, poco dopo la morte di Alcesti, Ferete, il padre di Admeto, un ometto malandato ma tutto sommato ancora in salute, che a scapito di ogni rispetto e devozione filiale si vede scaricare addosso le peggiori ingiurie possibili, da parte di Admeto, per non essersi sacrificato lui stesso al posto dell’ancor giovane Alcesti: il povero vecchio Ferete viene tacciato come il responsabile della morte della donna. Nella risposta di Ferete c’è un momento catartico per il lettore/spettatore che aspettava di dirne quattro ad Admeto fin dall’inizio della tragedia: l’uomo, infatti, rinfaccia al figlio la responsabilità unica e totale della morte di sua moglie, lo accusa di vigliaccheria.

L’odio di chiunque per Admeto raggiunge qui il suo picco massimo. Nel suo sconfinato egoismo e nella sua stupidità, il re di Tessaglia afferma che l’amore per la vita non è un sentimento degno di un uomo. Come se fosse suo padre, insomma, quello che ha tremato di paura davanti alla sua ora incombente tanto da trovare una sostituta per gli inferi…

Admeto, intanto, ha già dato asilo al pragmatico e ben più virile Ercole, che si appresta di già a condurre la vicenda verso più lieti lidi. Si direbbe che Ercole sia l’unico personaggio che susciti una qualche simpatia in tutta l’opera: ma perché Euripide ha voluto scrivere un dramma dai protagonisti così odiosi?

Tra la molta gente che si è posta questa domanda nel corso dei secoli, spicca il c-m-wielandnome di Cristoph Wieland, che compose, nel Settecento, una sua propria Alcesti – ossia una delle opere più noiose e inutili mai concepite a memoria d’uomo.

La situazione era la seguente: il buon Cristoph era attratto dal mito di Alcesti, ma della versione euripidea non lo convincevano:

  • La stupidità e la vacuità di Admeto;
  • L’incresciosa mancanza di rispetto di Admeto verso suo padre;
  • Il chiasso di Ercole;

Che cosa rimane dell’opera se privata di tutti questi elementi, ci si può chiedere? Nulla.

Quella di Wieland è un’Alcesti inconsistente ed edulcorata. Admeto non sa che Alcesti ha deciso di sacrificarsi al posto suo, lo scopre e ne è devastato (due atti su tre sono totalmente occupati da amoreggiamenti last minute fra i due sposini al limite dell’assurdo); Ercole si esprime con un lessico forbito che manco Omero in persona e Ferete non esiste.

Risultato: l’opera è la storia di una tipa che muore, però poi resuscita. Fine.

Nell’Alcesti di Wieland le persone vivide e realissime gettate sulla scena da Euripide ritornano ad essere personaggi, vuoti portatori di un messaggio di innaturale buonismo.

d6a767cbf126de56259649b65cede83a8f135Ci sono voluti più di tre secoli perché qualcuno – per la precisione, Marguerite Yourcenar – riscrivesse in maniera fedele questa tragicommedia: si può dire che l’opera della Yourcenar, Il mistero di Alcesti, sia una sorta di traduzione per i moderni della versione euripidea del mito. Ciò che il tragediografo sottendeva – i sensi di colpa dell’ultimo minuto di Admeto, le sue accuse ad Alcesti di aver compiuto questo grande sacrificio solo per gettare un’ombra enorme sul resto della sua vita; per egoismo, insomma, più che per amore – sono qui esplicitate in un chiarissimo dialogo in cui i personaggi dei due sposi prendono corpo e vita: è facilissimo per un lettore estrapolarli dal contesto mitico in cui sono presentati e immaginarli nella vita di tutti i giorni, Admeto un uomo mediocre ed egocentrico e Alcesti una donna insicura che ritrova se stessa solo nel sacrificio, nell’accentuare la mediocrità del marito.

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L’addio di Alcesti e Admeto su un vaso etrusco

Eppure si amano. È forse questo il mistero?

D’altra parte, come biasimare Alcesti se dopo essere stata salvata da Ercole è molto più ansiosa di fuggire lontano con il possente eroe che di tornare dal lamentoso marito?

Di certo se Alcesti fosse stata la moglie di Ercole e non di Admeto non avrebbe avuto materiale per il suo sacrificio: sarebbe stata la protagonista di una tragedia diversa, o forse di nessuna; una donna normale, senza possibilità di sfogare le proprie manie compulsive.

Insieme Admeto e Alcesti fanno un dramma, con i pro e i contro che ne derivano: quel che ci si chiede dopo aver letto la Yourcenar è se il loro amore malato possa essere considerato amore, se anzi quello tra due persone le cui manie combaciano così alla perfezione non sia l’unico amore possibile.

Una delle versioni più recenti del mito, ossia il dramma Alcesti o la recita Giovanni_Rabonidell’esilio di Giovanni Raboni, restituisce alla protagonista quell’aura mitica e misteriosa che quest’articolo ha cercato di svellere: perché va riconosciuto che sì, Alcesti ha di sicuro tutti i requisiti della più becera delle ‘crocerossine’ e Admeto è privo di spina dorsale, ma in Euripide questi due personaggi riescono comunque a conservare una dignità, Alcesti in particolare, con i suoi silenzi e il suo viaggio con ritorno dal regno dei morti.

Perché Alcesti non parla? Per tutta la tragedia di Euripide, la protagonista parla solo se strettamente incalzata, e alla fine, tornata dall’Oltretomba, non parla affatto. Il suo silenzio conferisce una nuova dignità alla sua scelta: è il silenzio di un’anima stordita e pentita o di qualcuno che sapeva fin dall’inizio come sarebbe finito tutto, e che vivrà il resto della sua vita in un velo di chiarissima indeterminatezza?

Nessuno degli autori ci fornisce una risposta chiara: nella vita reale, per scoprirlo, se incontreremo una Alcesti (ed è più facile di quanto si possa pensare), non potremo fare altro che chiederglielo.

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