La raccolta di racconti Darsi del tu, pubblicata quest’anno da Mimesis, è il folgorante esordio letterario della scrittrice ungherese Edina Szvonen, che nel 2015 è stata insignita del Premio Letterario dell’Unione Europea per la sua seconda raccolta Non c’è e non deve esserci (pubblicata sempre da Mimesis nel 2017). Szvoren esplora attraverso questi quindici racconti la difficoltà delle relazioni umane con un linguaggio unico e ricco di sperimentazioni narrative, che ci fa entrare nella disperazione dei personaggi che vivono in un Paese, l’Ungheria, forse ancora alla ricerca di sé stesso dopo la caduta del socialismo. La curiosa carica sperimentale del linguaggio che permea Darsi del tu mi ha spinto a porre alcune domande alla traduttrice in Italia di Edina Szvonen, la magiarista e germanista Claudia Tatasciore, che qui racconta cosa ha significato il lavoro sul testo originale.
Nella tua nota iniziale al testo hai sottolineato la particolarità della lingua di Edina Szvoren, che si percepisce in maniera molto forte anche nella versione italiana. Cosa ha significato trasporre in italiano un testo in cui l’uso della lingua è un aspetto così fondante? In che misura si è trattato di un processo di riscrittura creativa dell’originale?
È innanzitutto una grande responsabilità. Trovarsi di fronte a racconti in cui il traino della lettura non è propriamente la trama, cosa viene raccontato, ma come viene raccontato mi ha posto di fronte a questo senso di responsabilità, nei confronti dell’autrice e del lettore italiano. Riconoscere tali particolarità e comprenderne la funzione è un passaggio fondamentale. Solo in questo modo l’aspetto creativo della traduzione può essere misurato e incanalato nella giusta direzione. Preferisco parlare di aspetto creativo e non di riscrittura creativa perché non vorrei dare l’idea di uno stravolgimento del testo di partenza, non è assolutamente questo il caso. L’aspetto creativo sta semplicemente nella consapevolezza che, nel processo traduttivo, si scrivono per la prima volta frasi che prima non c’erano, ma esistevano in un’altra lingua. Concretamente, durante il lavoro di traduzione, il mio senso di responsabilità si è espresso nel fare attenzione a ogni dettaglio, perché in questi testi l’atmosfera che si crea attraverso singoli elementi riferiti all’ambiente o ai personaggi è tutto. Alcuni esempi che mi vengono in mente: una vestaglia di spugna azzurra, un pezzo di polvere attaccato alla bocca che fuma, delle macchie di pipì sulle scarpe, i baffi di una donna sbionditi con l’acqua ossigenata… Al contempo tutti i testi sono percorsi da un’indeterminazione generale, e lì mi sono più volte trovata a chiedere – all’autrice stessa o a colleghi madrelingua – se c’era qualcosa che sfuggiva a me, o se quel qualcosa che sfuggiva era voluto. Nella gran parte dei casi era voluto.
La lingua ungherese, essendo di matrice non indoeuropea, è molto lontana dalla nostra. Hai riscontrato in questi racconti parole assolutamente intraducibili, quasi dei “rompicapo da traduttore”?
Per quel che riguarda i rompicapo, ricordo alcuni giochi di parole, oppure le frasi nonsense pronunciate da uno dei personaggi del racconto Fiducia. Ma in questi casi la difficoltà non era legata alle particolarità tipologiche dell’ungherese, quanto piuttosto al fatto di essere appunto giochi di parole, o nonsense… Attribuirei invece a peculiarità strutturali della lingua alcune difficoltà di carattere più generale. Ad esempio, il fatto che l’ungherese permette una grande creatività nei composti: uno dei modi per specificare un sostantivo è creare un composto fatto dal sostantivo stesso e dall’elemento che lo specifica. L’attenzione di Szvoren per i dettagli si esprime quindi in una lingua estremamente pulita, non barocca, rischio che invece si corre in traduzione quando si sciolgono i composti. Oppure quando costruzioni participiali collocate a sinistra (prima del sostantivo) devono essere sciolte, ad esempio in relative, e spostate a destra. Il rompicapo in questi casi è trovare il giusto equilibrio tra il conservare la ricchezza di dettagli e mantenere una lingua pulita, a volte spietatamente cristallina.
E poi c’è la questione dei tempi e dei modi verbali. Rispetto all’italiano, l’ungherese ha una gamma di possibilità molto meno vasta, ha due tempi verbali, il presente e un passato (il futuro si esprime con un ausiliare o ancor più frequentemente con una particella che letteralmente significa “poi”) e, in virtù di questo, uno schema molto più semplice nella resa del discorso indiretto, per cui, se utilizzato abilmente – ed è il caso di Szvoren – una stessa frase può essere attribuita sia al narratore sia a un personaggio del racconto. Szvoren peraltro rinuncia a ogni segno grafico che possa essere esplicativo, dunque nei suoi racconti non c’è traccia di virgolette. Questo è stato un punto su cui ho discusso a lungo con il revisore, che insisteva invece per un “aiuto al lettore” e ha introdotto sistematicamente le virgolette nel testo. Alla fine siamo giunti a un compromesso, e ho accettato che venissero lasciate le virgolette nel caso in cui si era esplicitamente di fronte a un discorso diretto. Negli altri casi, quelli dubbi o equivoci, ho cercato il più possibile di mantenere l’incertezza voluta dall’autrice. In questo modo speriamo di aver reso giustizia al testo, senza però renderlo troppo ostico per il lettore italiano.
Passerei ora ad un aspetto che mi sembra capitale in questa raccolta, ovvero l’identità della voce narrante. Nei racconti si gioca continuamente col concetto di persona: si narra alla seconda persona singolare, si scambiano le prospettive tra i diversi “io narranti” all’interno dello stesso racconto, si passa dal narrare secondo un noi indistinto di una coppia a quello dell’io femminile nel momento in cui i due si separano. Si tratta semplicemente di “esercizi di stile”, oppure queste scelte possono essere motivate in maniera più profonda? Penso anche rispetto alla condizione politica attuale dell’Ungheria, in cui vige un regime sovranista che rimanda ad un concetto di identità molto forte e assolutamente opposto alle identità sfumate presenti in questi racconti.
Non sono assolutamente esercizi di stile. Il punto fondamentale è mettere in dubbio l’autorità della voce narrante, così che si arriva a una perdita assoluta di oggettività della narrazione, spesso il personaggio che narra rimane davvero soltanto una voce narrante e al centro c’è ciò che accade, o meglio l’effetto che ciò che accade ha su tale voce. Un’estrema soggettività, combinata a un soggetto dall’identità sfumata.
La raccolta è del 2010. Il legame con la situazione politica è ravvisabile non tanto con i recentissimi sviluppi, quanto più con l’esperienza socialista: i racconti mettono in luce quanto una socializzazione in una realtà dittatoriale lascia una traccia nei rapporti interpersonali, rendendo tutti sospettosi, incerti, guardinghi.
In ungherese non vi è distinzione tra genere femminile e maschile e l’autrice sfrutta moltissimo questa ambiguità, tanto che nella maggior parte dei casi non sappiamo se chi parla sia un uomo o una donna; spesso il genere viene inferito da piccoli dettagli senza che sia esplicitamente detto. Dietro questa scelta ci potrebbe essere l’idea per cui la sessualità è inessenziale alla definizione di un’identità, come se non fosse importante se chi parla sia un uomo o una donna, ma la sua prospettiva sul mondo? È un aspetto presente anche nell’altra raccolta di Szvoren da lei tradotta: Non c’è, e non deve esserci?
Sì, assolutamente, e in entrambe le raccolte di racconti questa caratteristica della grammatica ungherese viene sfruttata in particolare nella dimensione della relazionalità. Quindi non solo il fatto che l’identità sessuale non sia un elemento decisivo per definire la prospettiva del soggetto sul mondo, ma anche che non ci siano modelli di interazione preconfezionati e determinati dall’identità di genere. E questo vale, chiaramente, anche per la sfera sessuale. Dunque in alcuni racconti, a un certo punto della lettura il lettore si rende conto di essersi fatto – automaticamente – un’idea di quale sia il sesso del/della protagonista, ma di non possedere in realtà elementi concreti che confermino o smentiscano la sua idea. La provocazione di Szvoren è portare il lettore a chiedersi: ma ho davvero bisogno di saperlo? È davvero questo l’elemento essenziale nella storia?
In quasi tutti i racconti si parla di rapporti famigliari. Le famiglie ritratte nel libro sono letteralmente allo sbando, con genitori alcolisti, figli senza madre o senza padre e persino omicidi domestici. Si evince tutta la violenza delle relazioni e l’impossibilità di una comunicazione autentica, tanto che a un certo punto si legge: ‹‹(…) il legame di sangue non è sufficiente ad avere argomenti in comune››. Ma questa assenza di comunicazione traspare soprattutto nel non-detto, in ciò che è “tra le righe”. Come è stato possibile “tradurre” questi silenzi?
Rimanendo attaccata al testo originale, assorbendolo parola per parola prima di restituirlo in italiano, vivendolo. Non sono testi leggeri da tradurre, ogni sessione traduttiva è costata una certa fatica emotiva. Tanto più che mi sono trovata a lavorarci in una fase particolare della mia vita: durante la mia prima gravidanza e poi, in fase di revisione, durante la pandemia e il lockdown. Una fase in cui nella mia mente vivevo in maniera positiva, ottimistica, gioiosa, il tema dei rapporti familiari. Spesso i testi di Szvoren erano un esempio di quello che non avrei voluto costruire per me, per la mia famiglia. Credo che, più ancora dell’elemento di professionalità, sia stato questo elemento strettamente personale a farmi vivere a fondo i testi. Se nella lettura si sentono anche i silenzi, vuol dire che è stata una fatica emotiva ben spesa.
Per concludere vorrei porti una domanda di ordine generale sulla letteratura ungherese contemporanea, di cui non sappiamo molto come per altre letterature. Ci sono autori ungheresi che ritieni fondamentali e imprescindibili, che restituiscono una visione sull’oggi in qualche modo illuminante?
C’è una scrittrice che è diventata una mia “ossessione positiva”, nel senso che sto cercando a piccoli passi di introdurla nel panorama letterario italiano: Zsófia Bán. Anche lei finora ha scritto solo racconti, o racconti-saggi, e due li ho tradotti all’interno di un bellissimo progetto sul racconto proposto dalla casa editrice Textus. Il suo modo di guardare a quanto ci accade oggi è illuminante perché combina la leggerezza dell’ironia, anche del gioco letterario, con la profondità di una memoria storica sempre viva. Un’altra autrice interessante in tal senso è Krisztina Tóth: di lei proprio quest’anno è uscita in italiano la raccolta di racconti Pixel, tradotta da Mariarosaria Sciglitano per le edizioni ETS.
E poi vorrei consigliare un libro di Sándor Márai, anche se non è un autore vivente né una nuova scoperta per i lettori italiani. Si tratta del libro Volevo tacere, tradotto da Laura Sgarioto per Adelphi. Non è un romanzo, ma una lunga riflessione di Márai sulla sua Ungheria nei dieci anni che vanno dall’Anschluss all’esilio dell’autore. La sua lucida lettura delle conseguenze del trattato del Trianon, del senso di rivalsa magiara, ma anche del sistema di servitù della gleba rimasto a lungo in vigore, permettono al lettore italiano di comprendere tanto anche dell’Ungheria di oggi.
Giacomo De Rinaldis