La scienza si è trovata più volte a dover calcare le scene teatrali. Etica e scienza, come binomio, rappresentano ormai una tradizione di lunga durata e di successo tra i drammaturghi, che tuttora continua a porre al pubblico inesauribili interrogativi: al di là della perenne attualità delle questioni messe in luce, che risorgono sempreverdi di pari passo con le risposte del progresso scientifico, la tematica offre alla penna del drammaturgo una pluralità di strade in cui addentrarsi.
Il problema dell’atteggiamento dello scienziato in relazione all’ideale benevolo, “umanistico” della scienza si divide tra morale e pratica, utopia e storia, collettività e individualismo, forza d’unione e competizione, condivisione e privilegio, giustizia e possibilità, società e cultura, conoscenza e tabù. Tre di questi spettacoli si prestano a un confronto felice ed esemplificativo in tale senso. Seppur concentrandosi su aspetti diversi del medesimo oggetto di osservazione, Vita di Galileo di Bertolt Brecht, I fisici di Friedrich Dürrenmatt e Copenaghen di Michael Frayn costruiscono attorno al nocciolo del dibattito etico uno stratificato apparato di corollari. L’interesse di un’analisi incrociata tra questi testi è favorito, tra l’altro, dalla loro comunanza di ispirazione.
Le tre storie — tre storie non a caso di fisici — nascono sull’onda della querelle atomica. Brecht lavorò alle due famose riscritture di Vita di Galileo negli anni direttamente successivi a Hiroshima, dopo una prima versione precedente allo scoppio della bomba, dove l’abiura di Galileo faceva la sua comparsa in chiave non ancora negativa; Dürrenmatt invece scrisse la sua commedia di fantasia in piena guerra fredda, mentre Frayn arrivò a interessarsi dei rapporti tra due dei padri della meccanica quantistica, Werner Heisenberg e Niels Bohr, nel 1998.
Non sarebbe quindi troppo scorretto leggere in queste tappe un segno di come i tre testi abbiano determinato un’evoluzione del pensiero teatrale relativamente alla tematica. In verità, tuttavia, Vita di Galileo, I fisici e Copenaghen visualizzano la circostanza per cui sono stati scritti entro il limite di orizzonti più ampi, che superano il mero livello etico-scientifico. In breve, quanto alle trame, il primo ripropone le sfide lanciate dalla Chiesa al fondatore del metodo sperimentale a partire dal 1610 fino alla capitolazione formale del fisico di fronte alle accuse dell’Inquisizione. Il secondo è ambientato in una clinica psichiatrica svizzera, dove sono internati tre fisici che sostengono di essere il re Salomone, Newton e Einstein, quando invece fingono la pazzia e tengono nascoste l’uno delle teorie rischiose per la salvezza dell’umanità, gli altri la loro identità di spie inviate da grandi potenze internazionali allo scopo di impossessarsi di quelle scoperte.
Copenaghen infine vede ripetere per più volte, sullo sfondo di una sorta di limbo in cui Heisenberg, Bohr e sua moglie sono sprofondati con la morte, l’incontro nel 1941 tra i due studiosi in una Copenaghen sottoposta all’occupazione di quella Germania che è patria di Heisenberg: incontro forse decisivo nella storia della bomba atomica, alla cui ripetizione i protagonisti sono costretti dalla loro stessa incapacità di ricostruirne le dinamiche.
Nei loro testi i tre autori convergono su alcuni centri concettuali, per poi elaborare ciascuno una propria visione critica circa il possibile o l’impossibile equilibrio tra storia e scienza. Indi lo scaturire di spunti di riflessione sul ruolo dell’uomo nei confronti dello scibile umano, dell’umanità, e del sistema universale in cui esso è più o meno consapevolmente immerso. In questo percorso, tutti e tre i drammaturghi si soffermano sulle definizioni di verità, in quanto fatto accessibile alla mente umana e dimostrabile su un piano concreto, e di ipotesi, in quanto possibilità tra tante, pura teoria concreta nel pensiero. Verità e ipotesi iniziano l’una dove l’altra finisce, e nel loro interagire, rivelano mano a mano le diverse opinioni dei drammaturghi sui concetti di ideale etico-scientifico e di responsabilità rispetto a quel determinato ideale.
In merito a Vita di Galileo, a chi più che al teorico del “teatro epico” poteva essere caro il tema della libertà di pensiero, quella che nel dramma è detta libertà di ricerca? Brecht sente su di sé il peso dei propri doveri di scrittore, votato tanto quanto il fisico alla verità. La lotta per la verità si combatte tra i fatti, quelli che con la vecchiaia e la cecità Galileo non riesce più a discernere con i propri occhi, e le ipotesi, le sole su cui al fisico è consentito di lavorare. All’interno di un testo il cui sottotitolo potrebbe benissimo essere “lode al dubbio”, la verità si identifica nella libertà stessa con cui essa viene conseguita: e se il valore della scoperta è determinato dall’atto dello scoprire in sé in quanto rivoluzione di pensiero, piuttosto che dall’oggetto della scoperta, l’atto peccaminoso di separare scienza e verità merita la condanna.
La resa all’Inquisizione di Galileo non si mostra dunque che una scorciatoia, un comodo abbandono dell’ideale brechtiano di conoscenza popolare, senza gerarchie e libera, accessibile e utile per tutti – l’“abolizione del cielo”. Tutto questo a favore di una presunta onnipotenza di ricerca, che cade nello specialismo, nell’atto voluttuoso del sapere fine al sapere, che insomma legittima, in quanto precedente, quella «nuova etica» di noncuranza morale che ha portato alla bomba atomica.
Non che l’arma del dubbio non rischi di rivoltarsi contro al suo autore – dove tracciare un limite tra certezza e fanatismo? Non è forse lo stesso ideale brechtiano un’ipotesi non ancora messa in pratica? –, ma la prova dei fatti basterebbe a non renderla vana: per Brecht vale sempre la pena di impegnarsi in un’inversione di pensiero. La colpa, dunque, sta nell’immobilità di pensiero, ovvero nell’indifferenza. Il sapere si incarna in chi lo studia e dallo studioso dipende il suo ruolo nella storia, attivo o passivo – come finora, passivo, è stato.
Dürrenmatt, con la propria commedia e i 21 punti teorici che la accompagnano, si situa all’opposto di quest’ottica se non ottimistica, non certo distruttiva. L’assenza di una verità qualsiasi, implicita in quel sistema filosofico-letterario che è alla base della poetica del “negazionista” della tragedia moderna, è postulata per assunto dall’inizio dello spettacolo. Già la farsa da giallo classico, con tanto di unità aristoteliche, poliziotti da barzelletta e omicidi in serie con cui ha inizio il testo lascia presagire la trappola di uno scherzo: la verità non esiste, ma esiste semmai la realtà, e la realtà è l’ipotesi, il peggiore dei casi possibili, che per caso si verifica – «tutto ciò che è pensabile viene pensato, prima o poi», e «ciò che si è pensato una volta non può più venir revocato».
Lo scarto tra scherzo e disfatta si registra nel passaggio tra primo e secondo atto, dove in un continuo ribaltarsi di certezze, gli ideali che hanno portato il protagonista, Möbius, a rinchiudersi in un manicomio, vengono messi seriamente in discussione. Ma Möbius e i due fisici patrioti ormai nel manicomio ci sono rinchiusi, senza possibilità di salvare la terra dal furto finale delle teorie scoperte. Un’altra opera di Dürrenmatt, il radiodramma Operazione Vega, si avvicina a I fisici nella rappresentazione della figura dell’idealista come martire di una causa persa: nel radiodramma, Venere, interpellata in guerra, si rivela abitata da un intero popolo di idealisti, che per aver conosciuto la bellezza ultraterrena dell’ideale, si trovano costretti all’idealismo da un clima di sacrificio che alimenta la loro stessa fede nell’idea.
Ne I fisici, tuttavia, Dürrenmatt pone la domanda che in Vita di Galileo Brecht sembra eludere: a che prezzo e con quali risultati difendere l’idea? Ha senso l’ideale, oppure si tratta di una follia da manicomio? L’idealista, il servo di Salomone – il sapere portato all’idolatria –, non è forse un pazzo? È la scienza a possedere lo scienziato come un fantasma, e a firmare per lui la sua condanna a morte: se l’ideale non ha senso, nemmeno può essere sensato attribuire a chi lo tradisce una colpa. In questa direzione va intesa l’esultante rinuncia del commissario al dovere di arrestare i tre pazzi, protetti dalla legge per la loro pazzia.
Anche in Frayn vengono meno i concetti di ideale e di colpa, nella misura in cui il mondo riduce queste due astrazioni al punto di vista più semplice tra gli infiniti adottabili, con la conseguente vittoria del politicamente corretto, accolto in termini acritici come versione ufficiale della storia – «un’altra versione», si invoca alla fine del primo atto. Il rasoio di Occam non funziona a Copenaghen: sulla pièce, retta dall’abilità di Frayn di intessere piani di tempo e di pensiero attraverso motivi ricorrenti in un effetto, per così dire, di contemporaneità del tutto, agiscono insieme le conseguenze formali dell’esperimento del gatto di Shrödinger e quelle del principio di indeterminazione di Heisenberg, entrambi citati. La verità ha una sua consistenza solo nella contemporanea pluralità di ipotesi. Le ipotesi stesse sono la verità, in quanto dotate tutte in potenza dell’occasione di verificarsi.
Così, la bomba è caduta su Hiroshima per mano dell’America quanto nelle intenzioni è caduta su Copenaghen o altrove per mano della Germania, il bluff di Heisenberg ha salvato tante persone quante ne ha sottoposte alla sofferenza della sconfitta, Heisenberg e Bohr sono stati insieme amici di intelletto e nemici nella folle corsa alla scienza, Bohr e sua moglie hanno perso un figlio e hanno avuto Heisenberg per figlio spirituale, le cose potevano andare diversamente e invece sono andate come sono andate: e allora la scienza che i due fisici hanno servito per tutta la vita non appare né per buona né per cattiva, ma buona e cattiva insieme. La responsabilità della scelta – qui richiesta a Heisenberg, e poteva essere richiesta a chiunque – sta tutta nell’incalcolabile, in ciò che lo scienziato non può prevedere. La scienza accetta l’indeterminazione, e più è stringente la necessità di una risposta veloce, più è difficile determinarne le conseguenze («Curvi a destra? Curvi a sinistra? O ci pensi su e muori?»).
In chiusura a un simile raffronto tra i testi, un ultimo termine di paragone degno di nota salta all’occhio nel caso in cui si leggano di fila i rispettivi finali. Traspare, forse casuale, forse no, una sorta di consequenzialità nelle soluzioni scelte. Brecht, il cui punto di partenza era stato il dubbio, inserisce, dopo il mea culpa di Galileo, un’ultima scena, in cui il discepolo Andrea Sarti, “abiurando” anche lui con la sua fuga in Olanda, per paradosso riesce a salvare un ultimo manoscritto del maestro grazie alle certezze superstiziose e alla sciatteria dei personaggi incontrati alla dogana. I fisici mostra all’inizio il paradosso di certezze assolute abbastanza simili, per poi lasciare il lettore, indeciso tra chi sia il pazzo e chi il sano, nella più desolata incertezza: i tre scienziati, destinati alla vita del manicomio, si presentano al pubblico per Newton, Einstein e Salomone.
Copenaghen pone l’incertezza come uno stato inevitabile, da cui deriva una contemporaneità di opzioni possibili. Quando però le cose succedono, quando una delle opzioni si concretizza, il motivo per cui proprio quell’ipotesi si sia concretizzata sfugge alla comprensione umana: «non vi sarà più indeterminazione, perché non vi sarà più conoscenza» – l’incertezza è un’invenzione dell’ignoranza dell’uomo. Eppure, l’indeterminazione, a fronte di tanta piccolezza umana, determina sì il male, ma anche il bene che spesso l’uomo non sarebbe in grado di fare: senza criteri definibili, sa risplendere, enigmatica, «nel cuore delle cose».
Elisa Ciofini