La leggera distopia made in Italy di Tony Laudadio

Il blu delle rose, di Tony Laudadio
(NN Editore, 2020)

Italia, anno 2047. Elisabetta è una ricercatrice genetica di successo, e collabora con l’azienda di ricerca META. È reputata una delle donne più brillanti e influenti del suo tempo: a lei e al suo vecchio gruppo di ricerca, il Centro Italiano per la Ricerca Cellulare e Organica, si deve infatti la scoperta del gene C, il “pezzetto” di DNA umano che determina la tendenza al crimine dell’individuo. Alcune persone, quindi, sono dei criminali perché geneticamente portate al crimine. Da questa scoperta scientifica è stata poi attuata la legge Genesi: se un individuo, in seguito a uno screening, presenta il gene C, è necessaria una prevenzione immediata e radicale superfluo specificare la natura di questa “prevenzione” prima che arrivi a compiere qualcosa di negativo. Il risultato di tutto questo sono le città più sicure che mai e vite tranquille per ogni suo abitante. A un certo punto, però, Elisabetta scopre qualcosa che non doveva, e si ribella a tutto questo.

Questa, in breve, la trama del romanzo distopico raccontato da Tony Laudadio. Una distopia tutta italiana e molto quotidiana: dentro questo futuro non troppo lontano troviamo il rapporto tra la protagonista e la madre, l’amore imprevedibile che all’improvviso sboccia di nuovo nel cuore di Elisabetta, la paura verso quel presente che lei stessa ha contribuito a creare. Tutti questi elementi tenuti insieme da una storia semplice e, a dirla tutta, senza pretese.

Il problema principale di Il blu delle rose è, infatti, proprio il fatto di scivolare via senza incidere, monocorde. La scelta di intraprendere un romanzo all’interno del genere distopico è già molto più insidiosa e complessa a monte: basta pensare ai pattern narrativi già ampiamente esplorati, alla difficoltà di riuscire a rinnovare l’immaginario di questa etichetta e, di conseguenza, all’estrema facilità di riscrivere per l’ennesima volta il già scritto. Per questo motivo, pensare di cimentarsi in una distopia nel 2020 senza il progetto di osare, sperimentare o quantomeno confermare con personalità la propria appartenenza al distopico, rischia di trasformare il lavoro, ahimè, in un tentativo fallimentare fin dal principio.

Bastano poche pagine, infatti, per avere la fastidiosa sensazione di ritrovarsi nel solito (e stanchissimo) futuro distopico, lo stesso futuro che da anni a questa parte viene sempre annunciato come “non così lontano” o “non così diverso dai giorni nostri”, in cui ogni assetto cognitivo ed etico è modulato intorno alla triade tecnologia-controllo-progresso, e lo sviluppo della narrazione oscilla tra la conferma e la messa in discussione di questi concetti. Da una parte la questione è capziosa, perché con il distopico c’è poco da fare: è un genere letterario, e il genere letterario è una categoria formale e tematica con suoi elementi ben definibili e costanti, quindi da un romanzo distopico ci si aspetterebbero proprio quegli elementi. Dall’altra parte però i problemi del romanzo di Laudadio non si limitano certamente al fatto che sia distopico nel modo più tradizionale (e, forse, più pigro).

Un autore conscio dei rischi e delle difficoltà insiti in un romanzo come Il blu delle rose, infatti, si porrebbe il problema di controbilanciarli adottando degli accorgimenti oculati, delle scelte da usare come “tampone” al fatto di star proponendo, per mezzo della propria storia, una serie di elementi narrativi ormai completamente assorbiti dall’immaginario comune. Questi contrappunti, di solito, avvengono sulla parte della lingua impiegata o su quella dell’invenzione narrativa. Laudadio, invece, si dimostra tanto volenteroso di raccontare una storia avvincente quanto ingenuamente convinto che a un romanzo distopico sia sufficiente avere una storia avvincente.

Le scene sono costellate di cliché: il condimento da spy story presenta una chiavetta USB nascosta che contiene un video registrato che rivela gli atroci retroscena della ricerca genetica sul gene C, inseguimenti e pedinamenti, morti misteriose e persone scomparse nel nulla; l’innamoramento di Elisabetta per Lionel, il giovanissimo nipote del suo domestico, scaturisce dall’idea che i ragazzi siano l’ultimo baluardo di genuino rinnovamento rimasto; il fine ultimo del progresso scientifico è l’immortalità; non appena la legge Genesi minaccia la sua serenità,  Elisabetta, cinica e assoluta fin dall’inizio, mette in discussione se stessa e si oppone alle regole di quel mondo che lei stessa ha contribuito a creare. Al posto di snellire e rinfrescare l’elemento romanzesco, tutti questi elementi lo appesantiscono, in parte perché prevedibili, in parte perché sono talmente autoreferenziali che, seppur nella prevedibilità, non riescono a creare alcun tipo di tensione narrativa. Persino un tema più che mai attuale e critico come l’immigrazione dal continente africano verso l’Europa non viene colto dallo sfizio di poter essere trattato in retrospettiva dall’osservatorio di un futuro distopico inventato,  ma viene semplicemente dato per ovvio e stereotipato in poche pagine.

Dal punto di vista della lingua e della tecnica scrittoria, le cose per Il blu delle rose non si mettono meglio. Al di là del fatto che nessun personaggio, nemmeno Elisabetta, riesce ad avere uno spessore caratteriale concreto e realistico, la scrittura di Laudadio si presenta da una parte comodamente pop (gli addetti alla sicurezza sono sempre energumeni, il cuore martella nel petto, e «abbiamo perso il nostro rapporto vitale con la natura, […] perché è sempre così difficile apprezzare ciò che si ha?») e in perenne affanno dall’altra, soprattutto nel caso dei dialoghi, che sono sempre meccanici e sbrigativi:

«Mamma, cos’hai? Cosa ti è successo?»
«Mi ha lasciato, ti rendi conto? Dopo tutto quello che ho
fatto per lui…».
«Chi?».
«Francesco».
«Scusa mamma, non ricordo chi sia Francesco. La tua
ultima fiamma?».
«Ultima fiamma? Stavamo insieme da dieci anni, Elisabetta,
cerca almeno di fingere che ti interessi qualcosa di tua madre…!».
«Scusa, hai ragione, a volte sono troppo distratta quando mi
parli delle tue cose. Ma sembri avere sempre la situazione sotto
controllo. Non credevo che potessi soffrire per un uomo…».

In conclusione, se la stragrande maggioranza di tutti gli abitanti del mondo conosce le regole del calcio, il numero di chi è bravo a giocarci è però molto, molto più piccolo. Allo stesso modo, non è detto che conoscendo le regole di un genere, e applicandole in modo perfettamente scolastico e codificato, si riesca comunque a scrivere un bel romanzo; Il blu delle rose, nonostante tutto l’entusiasmo e quella spontanea voglia di raccontare una storia che Laudadio fa trasparire dal suo romanzo, conosce molto bene le regole del genere distopico, ma non è in grado di aggiornarlo né di entrare a farne parte con personalità. Scivola semplicemente via, disimpegnato e leggero, lungo le proprie pagine.

Michele Maestroni

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