“Gente nel tempo”: il thriller metafisico di Massimo Bontempelli

Gente nel tempo, Massimo Bontempelli
(Utopia Editore, 2020)

È il 26 agosto del 1900 quando la Gran Vecchia, dispotica matriarca della famiglia Medici, si prepara a morire. Convoca dunque medico, notaio e prete, insieme a quel che resta della sua famiglia («erano quattro persone, due adulti e due bambine: cioè il figlio della moribonda con la moglie, e le loro due figlie, una di nove anni, una di otto, le nipotine») e annuncia: «Volevo solamente dire che sto per morire; so che male ho, non c’è niente da fare, morirò questa sera, o questa notte». L’annuncio della propria imminente dipartita non è però l’unico che la vecchia ha da fare: rivolgendosi ai propri cari, infatti, li tranquillizza riguardo la propria serenità («Non c’è niente di male perché s’ha da morire tutti, se uno non morisse sarebbe una cosa spaventosa»), donando loro le sue ultime aride parole («Non siete mai stati buoni a niente e morta io sarete ancora più inutili») e una maligna profezia, una vera e propria maledizione: «Del resto, nessuno di voi morirà vecchio».

Vale la pena soffermarsi sul tanto oscuro quanto irresistibile incipit di questo romanzo, Gente nel tempo, scritto da Massimo Bontempelli tra il 1935 e il 1936 e ripubblicato nel settembre del 2020 da Utopia, giovane casa editrice (sia di nascita, primavera di quest’anno, sia per composizione della redazione), cui si deve il merito di aver riportato nelle librerie la meravigliosa opera dello scrittore Premio Strega 1953 (con la raccolta di racconti L’amante fedele): già dalla lettura delle prime pagine, infatti, si ha subito la sensazione di trovarsi di fronte a un’opera profonda e inquieta, oscura e illuminante, e la domanda nel lettore sorge spontanea: perché solo ora?

Bontempelli, infatti, è stato per anni quasi dimenticato, vuoi per la sua adesione al Fascismo, vuoi per la contraddittorietà e la natura composita dei suoi scritti. Scrive Asor Rosa nel Dizionario biografico degli italiani: «Gli ultimi anni del B. furono tristi, per gli acciacchi della vecchiaia e l’isolamento in cui lo scrittore e la sua opera, nonostante l’impegno di alcuni vecchi e fedeli amici, erano caduti.» Un epilogo molto simile a quelli dei suoi personaggi: a quest’ultimi, tuttavia, così come al loro autore, le vie del tempo e della letteratura hanno concesso una seconda vita.

La famiglia Medici, dunque, orfana della Gran Vecchia, si appresta a prendere possesso della Coronata, la villa di famiglia poco lontana da Colonna, paesino dell’entroterra ligure. Protagonista della prima parte del romanzo è Silvano, figlio della vecchia, marito di Vittoria, e padre delle piccole Nora e Dirce. Cresciuto sotto l’imponente e asfissiante ombra della madre, deve ora fare i conti con i mutamenti che la morte di quest’ultima inevitabilmente porteranno nella sua esistenza: «Aveva creduto la vita una cosa passiva e quasi tranquilla, intese quella mattina che anche una foglia vive d’uno sforzo continuo di volontà».

La stessa strana sensazione avverte Vittoria, cui sembra impossibile ora poter muoversi liberamente all’interno della villa «senza prima essere corsa a prendere gli ordini dalla Gran Vecchia». Se nella donna questa nuova condizione pare liberare istinti e moti estremamente vitali, in Silvano prevalgono angoscia e inquietudine: quando qualcuno gli fa notare che «ora è lei il padrone e può comandare», l’uomo altro non ha da pensare che «comandare gli altri è una maniera d’essere solo».

L’immobilismo di Silvano porta Vittoria a cercare la vita al di fuori della Coronata. Eppure anche la donna, che nel frattempo tenta di intrecciare un amore latente con Maurizio, amico di entrambi, non pare trovare requie; così, di ritorno da un viaggio a Roma tanto atteso e desiderato, Vittoria «s’è trovata distratta e sconfitta, lontana da tutto e da sé, un vuoto infinito della cita avvolgerla intorno e non sapere dove uno si afferra per non precipitare nel niente che non ha termine; perché ci vuole molto più e molto meno che Roma per essere vivi».

Silvano pare consumarsi lentamente, l’unico motivo che pare accendere in lui un vago lume di vita sono i libri, la raccolta di questi: ma non basta, anzi, gli sarà fatale: così, il 26 agosto del 1905, «il volto della Gran Vecchia lampeggiò, e Silvano non provò più niente». A cinque anni esatti di distanza dalla sua morte, la maledizione della matriarca pare aver mietuto la prima vittima. Indugiare ulteriormente sulla trama sarebbe poco proficuo: basti solo allertare il lettore che, come già si intuisce dalle prime pagine, la profezia della Gran Vecchia è in qualche modo destinata ad avverarsi: «Cinque anni cinque anni cinque anni; ogni cinque anni muore uno della famiglia Medici. Cinque anni», e infatti Vittoria scompare nel 1910.

La surrealtà della vicenda, ispirata tra l’altro a una storia vera, non sorprenda: di questo, del resto, e di tanto altro è fatto il «realismo magico» teorizzato proprio da Bontempelli tra le pagine di 900, rivista da lui fondata e diretta insieme a Curzio Malaparte:

«…Fare dell’arte invece che un tedio un miracolo, invece che il disbrigo di una pratica un atto di magia. Quello che chiamate stramberia, è realtà esasperata; è spostare un angolo della superficie della realtà, per farvi vedere la realtà più profonda.»

Non solo magia, non solo metafisica: come fa giustamente notare Marinella Mascia Galateria nella prefazione, all’inquietante e ombrosa atmosfera iniziale del romanzo, rimaste in vita solo le ormai giovani donne Dirce e Nora, si aggiunge una logorante componente thriller: «Né Dirce né Nora pensavano ora una all’altra, ognuna annaspava nel proprio terrore come in una melma cedevole a cercare un punto d’appoggio, non trovandolo sentiva spegnersi dentro ogni moto, tutta si lasciava scendere in giù senza scampo in una rassegnata caduta infinita. Così scendono le generazione nella fornace del tempo».

Le due, infatti, venute a conoscenza della maledizione, già teorizzata dall’abate Clementi, memoria storica di Colonna, si trovano nell’assurda situazione in cui la morte di una sorella significherebbe la vita per l’altra (perlomeno altri cinque anni).

«Né Dirce né Nora pensavano ora una all’altra, ognuna annaspava nel proprio terrore come in una melma cedevole a cercare un punto d’appoggio, non trovandolo sentiva spegnersi dentro ogni moto, tutta si lasciava scendere in giù senza scampo in una rassegnata caduta infinita. Così scendono le generazione nella fornace del tempo.»

Occupa così sempre più spazio quello che è il vero tema del romanzo, ovvero il rapporto dei personaggi con lo scorrere del tempo: «Alla prima pioggia s’accorsero che era incomodassimo traversare un pezzo di terrazza per andare dalle camere allo studio. Stabilirono di cambiare di nuovo appena vi fosse una buona occasione. In queste cose si consuma la vita». E ancora: «Perché senza che ce ne siamo accorti sono passati dalla morte di Vittoria altri tre anni e mezzo; Dirce sta compiendone ventitré, ventidue Nora. È terribile».

Nel narrare un arco temporale di 25 anni in meno di 200 pagine, Bontempelli agisce da scrittore di razza: nella figura della Gran Vecchia, infatti, è possibile rivedere il mito di Saturno che divora i suoi figli (sarà che chi scrive lo ha scelto come pseudonimo), ed è altresì del tutto evidente, alla base della struttura narrativa del romanzo, la distinzione mitologica tra Kronos e Kairos, ovvero tra la concezione quantitativa e qualitativa del tempo:

«Vivere normale vuol dire tante cose senza interesse e in apparenza senza ragione, il tempo fatto d’una serie internata di atti mediocri. Perciò questo racconto, che avrebbe voluto seguire le grandi linee di quel fondo dramma, una volta ancora si trova a non avere un filo di corrente cui abbandonarsi, ma deve remigare tra la mistura degli episodi vagabondi sulla superficie dello stagno.»

È proprio raccontando e concentrandosi su questi «episodi vagabondi» che Bontempelli riesce a definire gli snodi cruciali delle vite dei propri personaggi: dieci anni possono dissolversi in un battito di ciglia, così come nei pochi centimetri occupati da qualche riga; allo stesso modo un istante può dilatarsi in secolo, o in pagine e pagine e pagine: è la forza della letteratura, certo, ma è anche, e soprattutto, la semplice vita: ed è proprio lo straniamento provocato da tale consapevolezza che Bontempelli restituisce magistralmente al lettore.

«Anni, anni, anni, sono uguali, vuoti, e all’ultimo troviamo che sono fuggirti rapidi Dirce ne ha ventotto, che non è stato più che un soffio di vento dal giardino della Coronata a ieri; e questo solo ieri così gonfio pare lontano, tortuoso, immenso. Il tempo, discesa di fatti minimi; se vi getti dentro un’avventura intensa, lo ingombri e scompigli, intorbidi il ritmo, gli togli ogni verità, è una disperazione.»

Né nello sviluppo della trama, né nel suo epilogo, pare esserci consolazione. Perché se è vero che «tutti siamo condannati a morte», lo è altrettanto che «non importa morire, importa non sapere quando». Una frase che sembra appartenere a una serie Netflix, e che invece è una delle tante ferite che questo meraviglioso romanzo è in grado di infliggere al lettore: per la sincerità, l’onestà, lo spessore attraverso cui una storia, sorprendentemente avvincente, è raccontata. Gli anni passano veloci, sì, e anche le pagine del libro: non un’espressione logora o stereotipata nelle descrizioni, arricchite invece dal ritmo e dall’eleganza di una prosa classica e originale allo stesso tempo.

«Solamente quando saremo morti» scrive Bontempelli in uno dei passi cruciali del romanzo «capiremo con improvvisa maraviglia, la portata e forse la grande saggezza di tanti atti nostri che credevamo aver fatti per caso, e stimavamo spersi e ineffettuali nella gran costruzione della vita del mondo». Che poi, a proposito di profezie…

Ignazio Caruso

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