Afferrare il buio – Notturno formale di Stefano Bottero

Notturno formale, Stefano Bottero
(Industria&Letteratura, 2023)

Accade quando si spengono le luci, di notte, rimanendo soli nelle proprie stanze, di avere dei pensieri, delle visioni, ancora prima di prendere sonno, quando il sonno non vuole arrivare, e i ricordi s’intrecciano a delle fantasie, delle sensazioni tattili. E confusamente si avanza in quelle storie, dove realtà e finzione coincidono; dove pensiamo di essere qualcos’altro. Il cammino allora appare fluidificato: non esistono gli ostacoli della veglia, le fatiche del corpo e della coscienza: si prosegue per immagini che a noi sembrano chiare ma esistono solo per noi, per tutta la nostra esperienza di vita e qualcos’altro.
Su questi confini si articola il libro di Stefano Bottero, Notturno formale, edito per i tipi di Industria & Letteratura nel 2023.

Il libro frutta anche una collaborazione tra la poesia e la fotografia, contenendo alcune opere di Nerina Toci, le quali intermezzano le poesie di Bottero. La comunicazione tra le due arti, in questo caso, funziona: le composizioni di Bottero rimandano a quelle di Toci e viceversa. Non aggiungono, risuonano. Sono infatti coincidenti nelle loro essenze comunicative. Le fotografie di Toci donano ancora più tattilità alle poesie di Bottero, le collocano in uno spazio che spesso sembra mancare al testo.

La poesia di Bottero persegue la via del lirismo onirico, a-temporale, a-spaziale, privo di radici. E vaga in un buio infausto, dove l’unica certezza vibrante è la passione dei corpi e del loro allontanamento perpetuo, dell’impossibilità di unirsi totalmente in un bacio continuo.

La nostalgia per qualcosa che non esiste ma che vorremmo esistesse lega tutte le composizioni. L’accumularsi di una consapevolezza di solitudine eterna rompe i legami con una poesia romantica novecentesca. In tal senso, le tecnologie citate sono cause ed effetto di questa sicurezza. Allora non si fa altro che continuare a vagare in una sorta di traiettoria circolare simile al sogno prospettato come incubo.

La raccolta afferra quindi la quotidianità, dove può trovare qualche briciolo di fermezza. Afferra la carne, gli oggetti che si muovono – “la lavatrice”, “i detersivi”, ecc. -, ma che alla fine rimangono sempre nello stesso punto. Che non ci lasciano, insomma. Dalla fine di un amore non ci rimane altro che quella accettazione: essere lì da soli a guardare proprio quelle cose che restano. Imperturbabili, inumane. Eppure non si può fare a meno di provare rabbia: la rabbia di non volere nemmeno credere all’eternità di un corpo fragile. Tutto opprime, incupisce. Lo stordimento delle droghe e dell’alcol permettono una soluzione di continuità con l’amore indimenticabile.

Tutto questo Bottero lo esegue al modo di un cantautore malinconico che un pomeriggio suona in un piccolo bar: Bottero offre l’intimità poetica, mantenendo tuttavia freddezza, un distacco che osserva gli eventi da una torre-prigione.

Le poesie di Bottero sono immagini. Non mi sorprende la scelta di una collaborazione con l’arte fotografica, in tal senso. Potremmo infatti dire che le poesie di Bottero sono principalmente immagini, e poi parole. Nella maggior parte dei casi le parole sono distanti fra loro: non formano un quadro complessivo, ma diverse finestrelle da dove intuire la complessità. Molto spesso, a mio parere, questi tentativi non riescono proprio perché è complesso cogliere un fiore nella sua interezza, invece di petali sparsi. Per curiosità, ho letto le poesie di Bottero al contrario, cioè dal verso in chiusura al primo, e nella maggioranza dei casi la composizione risulta ancora più potente. Questo per dire che le composizioni paiono “soffrire” di una mancata coesione, al punto che l’ordine dei versi è meno incisivo della portata ambiziosa dei singoli periodi, in uno spargimento di senso eccessivo all’interno del singolo testo.

È come se la ricerca di Bottero fosse confusa (non so se volontariamente o meno) – da una parte coglie notevoli intuizioni sugli aspetti particolari, dall’altra sembra quasi cercare di fare il passo più lungo della gamba, nella necessità di dire ancora di più del silenzio e dell’inconoscibile che pervade il notturno.

Complessivamente mi è parso di leggere una raccolta dove la volontà è quella di perseguire una strada già calcata da altri maestri del passato (si veda Milo De Angelis). E la riuscita è una tiepida luce ermetica, che prova a essere inscalfibile nella rete attorcigliata del nottivago.

Vittorio Parpaglioni

Immagine in evidenza generata tramite AI

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