Intervista a Francesco Bergamasco, traduttore di V13

Emmanuel Carrère, V13
(Trad. it. Francesco Bergamasco, Adelphi, 2023
)

Il 13 novembre 2015 Parigi vive uno dei momenti più incredibili della sua storia recente: vari commandi di attentantori suicidi entrano in azione al Bataclan durante un concerto hard-rock, all’esterno dello Stade de France mentre al suo interno si svolge l’amichevole di calcio tra Francia e Germania, e all’esterno di alcuni café nell’XI arrondissement. Muoiono 130 persone, ci saranno quasi 400 feriti di varia natura. Quel venerdì sera è uno spartiacque, l’evento che condensa anni di tensioni tra la Francia (ma anche l’Europa in generale) e i fedelissimi dello Stato Islamico, all’epoca in grande espansione in Siria e in Iraq. Il nuovo libro di Emmanuel Carrère, V13, pubblicato in Italia da Adelphi e tradotto da Francesco Bergamasco, è il racconto del dopo, del processo che lo stato francese ha intentato nei confronti degli assassini, di coloro i quali – per vari motivi – hanno partecipato alla preparazione e allo svolgimento degli attentati.

Abbiamo posto alcune domande a Francesco Bergamasco, sul suo lavoro in generale e sul metodo che ha utilizzato per tradurre questo libro. Diviso in tre parti (“Le vittime”; “Gli imputati”; “La corte”) come in una triade hegeliana fatta di tesi, antitesi e sintesi, V13 è un libro che nasce dal riadattamento di contributi scritti per il settimanale dell’Obs e da un’osservazione quasi maniacale di Carrère stesso che, per un anno intero, ogni giorno, si è chiuso nell’enorme scatola giudiziaria che ospitava il processo e lo ha seguito senza pause. Proprio per questa sua natura documentaria e di testimonianza, V13 è un libro che si affida moltissimo alle parole: più volte Carrère sottolinea che è stata usata proprio quella parola, oppure che questo «è il genere di parole» (p. 36), che le schegge dei proiettili che esplodono nelle gambe di un testimone lo «dilaceravano» e dice Carrère «non conoscevo ancora questo verbo: “dilacerare”» (p. 40); riportando i ricordi di un sopravvissuto del Bataclan scrive «tutto è mescolato, aggrovigliato — questo aggettivo, “aggrovigliato”, ricorre spesso» (p. 62).

Evidentemente Carrère è mosso da un’esigenza forte: mantenere uno sguardo fedele al racconto, in una dinamica di rispetto totale per le parole che, con fatica, le persone coinvolte hanno trovato per esprimere una brutalità che sfugge al linguaggio. Come ha gestito questa peculiare natura del testo e quali particolari attenzioni ha messo in atto nel tradurre il lavoro di Carrère?

Nel tradurre V13 non ho seguito un metodo particolare, se non cercare di prestare attenzione alla lingua settoriale utilizzata, in questo caso quella «processuale», nella quale includerei la terminologia giuridica e i verbali di polizia. Per quanto riguarda il modo di affrontare il testo, ogni traduttore segue una propria prassi, e quindi quello che dico vale a titolo puramente personale. Leggo il testo prima di tradurlo – e la lettura di V13 è stata senz’altro un momento coinvolgente. Poi, però, quando si tratta di passare alla traduzione mi sembra importante, e lo è stato in particolare nel caso di V13, prendere le distanze e prestare attenzione prevalentemente all’aspetto linguistico, perché è attraverso questo che Carrère è riuscito a dare voce a quel contenuto commovente, doloroso, straziante, e a volte, paradossalmente, anche comico.

Questo non è il primo libro di Carrère che le capita di tradurre: per Adelphi ha tradotto Il regno, la raccolta di saggi Propizio è avere ove recarsi, lo stupefacente Limonov. Libri di non-finzione nei quali, molto più che in altri, l’autore è al centro della narrazione: che rapporti ha avuto con Carrère? Ci sono stati in questi anni scambi di email, telefonate, per risolvere dubbi interpretativi o per approfondimenti che reputava importanti ai fini della traduzione?

No, non ho mai avuto scambi con Carrère. In generale non ho mai avuto scambi con gli autori, tranne forse in una circostanza. Nel caso di Carrère credo dipenda dal fatto che la chiarezza del testo – esito, come lui stesso ha precisato, di intenso lavoro – aiuti il traduttore, il cui compito mi sembra sia poi quello di non offuscarla inutilmente.

Proprio perché non è la prima volta che traduce un libro di Carrère: quali sono le principali differenze che ha notato tra V13 e gli altri libri su cui ha lavorato? 

Pur rientrando V13 nel genere narrativo noto come «autofiction» (di cui Carrère è uno dei massimi esponenti – senza che questo significhi limitare il suo valore ai ristretti confini di un genere), lo spazio accordato alla prima persona è minore, direi quasi più «sorvegliato», che negli altri libri da lei citati (penso in particolar modo al Regno, o anche a Yoga, tradotto da Lorenza di Lella e Francesca Scala). E questo, credo, perché di fronte alla tragedia che il processo costringe a far rivivere, Carrère lascia spesso, in senso letterale, la parola a chi da quella tragedia è stato direttamente o indirettamente colpito. L’autore figura qui più che altrove come osservatore, anche se poi nel corso del tempo instaura rapporti personali e anche di amicizia con alcune parti civili, e allora più marcata diviene la presenza della prima persona.

Torniamo a V13. La lettura di questo libro è un’esperienza molto forte, questo è innegabile. In primis perché vengono esposti alla luce alcuni degli angoli più oscuri del genere umano; poi perché alcune storie — come Carrère annota più volte —, soprattutto quelle delle vittime (sopravvissuti o no) si assomigliano molto eppure riconducono tutte a una stessa matassa nella quale sembrano intrecciarsi. Com’è stato gestire questo materiale nel corso della traduzione, a livello emotivo? In altre parole: che rapporto hanno avuto, in questo caso specifico, il traduttore e il lettore?

Riprendo in parte la risposta data alla prima domanda. Personalmente considero la lettura preliminare del testo necessaria (ma so che altri traduttori procedono diversamente, e preferiscono scoprire il testo a poco a poco per mantenere nella traduzione la freschezza della sorpresa che il testo ha provocato in loro la prima volta). La considero necessaria perché il testo è stato scritto per essere letto, prima ancora che per essere tradotto. Nel caso di Carrère, poi, mi sembra che soltanto ponendosi per quanto possibile nella posizione di «lettore ingenuo» (che per Calvino era una sorta di paradiso perduto) si possa sperimentare pienamente l’urto emotivo che i suoi libri sempre provocano. Il momento della traduzione è altra cosa; si tratta di cercare, più che di riprodurre, di non disperdere l’aura di quella reazione originaria (pur nella consapevolezza che naturalmente qualcosa andrà perduto), e di mirare a questo risultato prestando attenzione ai mezzi linguistici con cui quella reazione originaria è stata prodotta. 

Saverio Mariani

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