Ho conosciuto Gianmarco Perale nel luglio 2021, al Premio Pop. Lui era in cinquina, io in giuria. Non ha vinto, e me l’ha sempre rinfacciato. La serata della premiazione (non sua, evidentemente), a evento concluso, l’abbiamo passata con gli altri del Premio in un locale in Bovisa, e qui, estraniati dal contesto, avevamo parlato a lungo di scrittura, e ho subito capito che c’era una comune visione, un modo simile di intendere la letteratura. Qui ci aveva parlato di una storia che voleva scrivere, di un ragazzino che finiva a tenere rinchiuso in una stanza il suo migliore amico, e di un’immagine, forse utile per un racconto, di qualcuno che mette un criceto in un forno a microonde. La prima è diventata il fulcro, la seconda solo un’immagine passante, di questo suo secondo romanzo, pubblicato di recente da NN Editore.
Di Perale, prima ancora del suo racconto che abbiamo pubblicato sull’ultimo numero, avevo già apprezzato Le cose di Benni, l’esordio con cui era in cinquina al Premio Pop, pubblicato da Rizzoli: c’era tanta vita vera, ma ridotta all’essenziale, a dialoghi credibilissimi su cui si sosteneva l’intera narrazione. Eppure, malgrado i pregi, c’era ancora qualcosa su cui lavorare. Con Amico mio il passo avanti è fatto. Una nuova storia di ossessione, di una inconsueta forma di “amore” – come scrive Walter Siti in fascetta – a cui è difficile dare un nome, tra Tom, un ragazzino di undici anni, e il suo compagno di scuola Poni. Protagonisti, ancora una volta, i dialoghi, in una storia conturbante, morbosa, che sa coinvolgere e avvincere come le storie d’avventura che leggevamo da ragazzini.
Quella che segue non è una vera e propria intervista, ma una conversazione su WhatsApp nell’arco – molto discontinuo – di due settimane, senza che fosse intesa come intervista (se non a un certo punto, quando ho capito che ne stava venendo fuori qualcosa che valesse la pena condividere; lui non so se a un certo punto l’ha sospettato, giura di no) e senza che seguisse un canovaccio, ma forse per questo interessante.
Si parla di Amico mio, ovviamente, di scrittura e di metodo, di sacrifici e rinunce, di speranze e delusioni, e di quant’altro affolla le vite di tutti noi, eccetera.
[11:39, 30/4/2023] Giuseppe: […] La cosa che più mi ha sorpreso è quanto sia credibile l’evoluzione di Tom, il precipitare di un ragazzino sempre più in fondo all’ossessione, alla mania. Riuscirci era di una difficoltà clamorosa. Non c’è neanche un momento in cui crolla la parete della credibilità. E il merito è dei dialoghi, ovviamente, e di come i personaggi, e le dinamiche tra loro, vengano fuori attraverso di essi. La gente parla, in continuazione, ma nessuno capisce l’altro. Le continue domande a ribadire l’ovvio[1] trasmettono una sensazione di disagio, di claustrofobia quasi, e qui vedo già una prima differenza rispetto a Le cose di Benni.
[11:15, 1/5/2023] Gianmarco Perale: In questo mio secondo romanzo sono entrato del tutto in Tom. Ho oltrepassato la concentrazione (l’immedesimazione?), arrivando a qualcosa di più. Qualcosa di più profondo. La mia voce (la voce dell’autore) si è fusa con quella di Tom. Non so spiegarlo. Avverto una profondità diversa. Più terribile, più oscura. Intorno a me, dentro di me, sento un buio pesante. Tom diventa me e io rimango in suo ascolto (e quindi in mio ascolto), sempre. Scavando e scavando. Perforando strati su strati di memoria dentro di me. Per arrivare in fine alla mia oscurità più terribile. E nel momento in cui ho sentito questa oscurità, nel momento in cui l’ho accettata, la mia percezione dell’insieme si è di colpo amplificata, rendendomi in risonanza con tutto il resto. In totale ascolto degli elementi satellite: di ogni azione, immagine, personaggio che non era Tom. Fondendomi con Tom sono riuscito ad uscire dal corpo di Tom. A non essere più Tom perché lo ero stato fino in fondo. Ne Le cose di Benni si è trattato di un processo maniacale e di logica, credibilità, tentativi, costruzioni ragionate. Ho costruito i personaggi (i satelliti, appunto) ma mai uscendo del tutto dal corpo di Drago. Perché mai (forse, chissà) ho ammesso a me stesso di essere Drago. In Amico mio l’anello del potere non appartiene esclusivamente a Tom. Ma è di tutti. Io divento tutti, con multiple personalità.
[11:32, 1/5/2023] Giuseppe: Ecco, questo si percepisce. In Benni avevo la sensazione che i dialoghi, per quanto ben fatti e credibili, tenessero lontani dai personaggi e dalla storia. Qui invece il dialogo ti porta dentro: in profondità nella storia e nelle psicologie di ognuno, Tom soprattutto. E non c’è battuta, per quanto minima, che non sia funzionale (sensazione che in Benni non sempre avevo). Non so se sei d’accordo.
[11:39, 1/5/2023] Gianmarco Perale: Sì, e ti dirò di più: è la lettura migliore che ho ricevuto. Tu hai apprezzato e sei entrato bene ne Le cose di Benni. Quindi capisci bene Amico mio. Nel primo romanzo ho lavorato su Drago. In questo ho lavorato su tutti. Ho sperimentato (ho vissuto davvero) tutte le altre voci. Ho avuto bisogno di fare un passo avanti. Un passo insicuro, pavido, che ha messo in discussione la voce di Tom. La mia. Come ho già detto: ne Le cose di Benni non sono mai uscito dalla voce di Drago. Qui, invece, ho messo in discussione Tom per tutto il tempo. Ero sulla sua spalla, ero lui, ma ero anche sulla spalla di sua madre, e di tutti gli altri. E ho imparato che ognuno di loro ha una vita vera, e dei sentimenti, fragilità che vanno protette. E che proteggendo soltanto il protagonista (se lo studio lo faccio solo su di lui) gli altri personaggi, per quando quanto il mio minimalismo aiuti la resa, risulteranno sempre storpi, zoppi, a metà. Mentre, se io salto del corpo di Tom al corpo di un altro personaggio, quel personaggio prende vita. E io devo credergli. Devo credere che la madre di Tom riuscirà a impedire i suoi guai. Ci devo credere. Devo battermi assieme a lei, da dentro di lei. Per questo non so cosa accadrà pagina dopo pagina. Non lo so davvero. E questa assenza di controllo mi lascia nell’incertezza fino all’ultima pagina. Ma allo stesso tempo rende tutto più credibile. Almeno per me. È una questione di sacrificio.
[13:47, 5/5/2023] Giuseppe: Scusami, volevo darti una risposta articolata e continuare il discorso, ma il lavoro ‘sti giorni mi ha mangiato. Tra l’altro mi ripetono in continuazione che dovrei farti un’intervista.
[…]
[14:58, 14/5/2023] Giuseppe: Comunque non ti avevo risposto mai a questo.
Cosa intendi con sacrificio? Mi interessa molto questo aspetto.
[15:05, 14/5/2023] Gianmarco Perale: Sacrificio. Sacrifico il controllo, la volontà, a favore della spontaneità, della verità. Studio il personaggio attraverso la vita che gli lascio vivere (il personaggio che prende vita con le sue azioni, dialoghi, silenzi). Lo lascio improvvisare. Sacrifico il concetto di letterarietà e di bellezza. La frase non ha più valore estetico (non me ne preoccupo), ma è piuttosto pura, onesta, e risulterà in fine esteticamente bella (nella semplicità). Il minimalismo è povero, forse sterile, ma è bello perché non ha alcuna pretesa. Come sorprendere un cervo in mezzo al bosco. Fa piccoli movimenti e ogni tanto volta la testa e muove le orecchie ascoltando il vento. Non ha nulla di speciale, ma è perfetto. Te lo immagini? Cioè, è perfetto perché non ha nulla di speciale. E questo liberarsi da ogni pretesa è un sacrificio.
[15:08, 14/5/2023] Giuseppe: In pratica è la storia, con le sue esigenze e con i suoi personaggi a guidare te, e non il contrario; a dettare le proprie regole.
È in un certo senso una questione di “ascolto”.
[15:11, 14/5/2023] Gianmarco Perale: Esattamente. Io conosco il disturbo del personaggio (e per disturbo si intende una cosa minima, non necessariamente psicologica) ma non so dove questo disturbo lo porterà. Cosa lo porterà a fare. Ed è questo che per me muove la grande letteratura. Quando sei parte della storia. Anche (forse soprattutto) meravigliandoti delle tue scelte (delle scelte dei tuoi personaggi). Sacrifichi il controllo. Sei in balia di te stesso, della tua onestà (“Cosa farei io?” mi dico. “Sii sincero.”). Le domande che mi pongo di continuo: Tu lo faresti? Fin dove ti spingeresti? Sei sicuro di non essere così? E più mi interrogo, più i personaggi crescono. E ogni personaggio ha un disturbo vero. Una necessità reale. Un obiettivo. Un ossessione. Come nella vita.
[15:32, 14/5/2023] Giuseppe: In una parola, quindi, l’alterità: indagare, raccontare se stessi attraverso gli altri; surrogare me con l’altro, la mia esperienza con l’altrui, e raccontare me attraverso l’altro e l’altrui, e districare i miei nodi districando i nodi altrui.
[16:03, 14/5/2023] Gianmarco Perale: È proprio ciò che faccio. E che fa anche Carrère, spesso. Secondo me è un bel modo di far letteratura. Ora, nel libro che sto scrivendo, cerco di sperimentare qualcosa di più intimo e diretto. Io. Niente più maschere. Ma te? Stai scrivendo? Hai qualcosa da mandarmi?
[omissis]
[16:28, 14/5/2023] Giuseppe: Ma mi vuoi dire qualcosa su questo nuovo libro? C’è un’ossessione anche qui?
[16:45, 14/5/2023] Gianmarco Perale: Sarà un libro in cui affronterò il mio percorso di scrittura fino al mio secondo libro (quindi gli inizi, Rizzoli, NN) e al contempo parlerò del lavoro nella ristorazione, il precariato della mia generazione (parlando della mia esperienza, del mio lavoro). La mia frustrazione, l’invidia per chi si realizzava. Per i vincitori (erano davvero vittoriosi?). Il mio odio per il mondo. Il farmi del male, volermi male, disprezzarmi. E tutto questo con una costante: l’ossessione per la scrittura e il voglia di leggere, isolarmi. E parlerò di Walter e del nostro rapporto. Di quanto mi sia da guida in ogni giorno. E dentro ci sarà il racconto che ti ho inviato per il Rifugio, che verrà editato da Walter (inserirò proprio l’editing di Walter. Con commenti, ecc.).
[16:50, 14/5/2023] Giuseppe: Ecco, se dovessi farti un’intervista, ti chiederei sicuramente di parlarmi del tuo lavoro, dei tuoi lavori, e del ruolo che in parallelo ha avuto la scrittura. Ricordo in metro, dopo la serata al Colibrì, che avevi fatto un discorso che mi aveva colpito molto, e avevi raccontato cose di te che non immaginavo. Se ti facessi questa domanda, cosa racconteresti?
[18:09, 14/5/2023] Gianmarco Perale: Quando ero più giovane passavo le mattine a scrivere e i pomeriggi a leggere. Tutti i giorni, domenica compresa. Tutti i giorni, anche a Natale, finché alle 18:00 non andavo al lavoro. Ho fatto qualsiasi cosa (non abbandonando mai la ristorazione). Dalle fabbriche ai call center. Lavori porta a porta. Ho rubato, dormito per strada o nei locali in cui lavoravo quando ero senza soldi o senza casa. Sognavo di entrare nella letteratura e che così facendo sarei finalmente stato felice. I lavori che facevo mi rattristavano. Mi sentivo umiliato e fallito. Avevo studiato Teatro in Accademia, e fu un percorso che non mi aveva condotto a niente. Incompreso dai docenti ed emarginato dai compagni per il mio modo di vedere il mondo. Le mie idee erano giudicate inconcludenti, nella maggior parte dei casi incomprensibili, non accademiche. Nessuno puntava su di me. Mangiavo da solo. Non volevo essere un attore e neanche un regista e neanche uno sceneggiatore. Non sapevo cosa volevo essere, ma sapevo che dovevo scrivere. Ne avevo bisogno. Leggevo e scrivevo tutti i giorni. Sentivo di essere uno scrittore. Lo sapevo. Lo sapevo. L’ho sempre saputo.
Concluso il mio percorso accademico, ho deciso di isolarmi. Sono partito per Londra e ho cercato di distruggermi. Ho lavorato come lavapiatti per un anno (circa 3.200 piatti lavati ogni giorno, e rimango basso). Non parlavo con nessuno, esclusi i miei coinquilini. Scrivevo e leggevo, e basta. Dormivo su un divano, e accanto a me, sul pavimento, dormiva il mio compagno di stanza. La stanza era sempre fredda, mancavano le tende e la grande finestra dava a est. La coperta l’avevo rubata a non ricordo chi. È stato un periodo importante. Volevo morire, ma galleggiavo. Un giorno ho deciso di tornare in Italia. Non ho più smesso di lavorare, e di odiarmi, e di andare avanti con la volontà distruggermi. Continuavo a vivere, impegnarmi in lavori non inerenti alle mie passioni (l’ho sempre fatto, e continuo a farlo), competenze ecc. Non so perché. È come se cercassi di andarmene da me. Sto fuggendo. Scappo dal me stesso che sono quando leggo e scrivo e ragiono e scavo nelle cose della mia vita. Ero un ragazzo che si avvicinava ai trent’anni con niente di concluso. Deluso. Alla sera consegnavo fritti e birre a tavoli pieni di gente. E nel tragitto verso la cucina mi domandavo perché quella gente non mi ringraziava, non mi guardava. Ero non un servo invisibile. Le estati lavoravo anche in fabbrica per racimolare più soldi. L’unica felicità arrivava nel prendermi quindici minuti (contati, mi controllavano) di pausa per andare a cagare. Non cagavo, lo avevo già fatto a casa ma loro non lo sapevano, e mi sedevo sul water chiuso e appuntavo idee per qualche racconto. O addirittura scrivevo: frasi, dialoghi, descrivevo immagini. Dopodiché uscivo e finivo il turno. Nei ristoranti era uguale. Andavo in bagno e scrivevo. L’ho fatto per anni, e a un certo punto (non ricordo bene quando, ma il compito ora è indagarlo) ho iniziato ad accorgermi di quello che esisteva intorno a me e a chi ero io in relazione al mondo. Rabbia e tristezza si sono fuse e sono nato io. Né del tutto rabbioso né del tutto triste. Ma piuttosto consapevole. È come se una mattina una mano si fosse posata sulla mia spalla e mi avesse svegliato. Le persone con cui lavoravo (o i clienti, chiunque) non le odiavo più. Ero assertivo, apatico, osservatore. Li osservavo vivere, e mi piaceva. Pareva il miglior spettacolo in assoluto. Persone terribili, bambini, pedofili, donne e uomini normali. Soltanto le persone. Vivevano ed erano letteratura. Cercavo la loro infelicità, le loro crepe, i loro punti deboli. E lo era anche il mio essere lì. Precario. Con una vita devastata dall’assenza di un padre e dalla psicosi di una madre. Cresciuto senza niente. Pieno di odio e di amore mischiati, confusi, spesso repressi.
E ho iniziato a credere che la mia scrittura, il mio occhio e la mia letteratura non erano niente senza le mie disgrazie. Io ero quello che ero perché tutto era stato quello che era stato (semi cit.). Io ero quello che ero e andava bene così. E che se ero così, se galleggiavo su questa sensibilità, era grazie ai miei tormenti e alle mie ossessioni. E sapevo che lo era di certo. Perché di certo non potevo sapere che cosa sarei diventato in un’altra vita, in una possibilità alternativa, con altre occasioni. La vita era questa. E quindi sapevo, lo sentivo, di essere quello che ero grazie ai miei disagi. E che questa certezza era la mia fortuna. Il mio patrimonio. Che il mio sguardo sul mondo, grazie al lavoro, al mio non essere mai (mai, davvero) contento, al mio sentirmi inetto in ogni istante e in ogni cosa, e al mio essere costretto in un mestiere spesso denigrante, mi consente di rimanere giù. Fra gli esseri umani sporchi. Ogni volta che scrivo qualcosa che mi convince (quelle rare, rarissime volte), quando dopo due ore arrivo al ristorante e consegno un piatto di pasta al pomodoro al tavolo 21, nel preciso momento in cui nessuno dei due fidanzati seduti al tavolo mi guarda e mi ringrazia, io mi ricordo di non essere un Dio. Mi rendo conto che ciò che ho scritto un’ora prima ha valore per me e per nessuno all’infuori di me. E che se per qualcuno all’infuori di me avrà mai valore, il giorno dopo quel qualcuno avrà letto qualcos’altro di più acuto e profondo e oscuro, e io sarò già stato dimenticato.
La scrittura mi mostra quanto posso essere alto andando in basso, scavando in profondità. Il lavoro mi riporta in superficie. Mi insegna ogni volta il mio essere miserabile. Il mio essere insignificante in questo mondo. Bilancia questa mia necessità di non voler appartenere a questo mondo con il mio voler non essere solo. Il lavoro umiliante, pessimo, logorante, mi ricorda che sono solo un uomo che ha fallito. Come tutti. E mi costringe ad ammettermelo ogni giorno. Giorno dopo giorno. Per il resto della mia esistenza. Fin tanto che non mi stancherò di esistere e troverò finalmente il coraggio di morire. Di morire davvero.
[19:23, 15/5/2023] Giuseppe: Non mi aspettavo una risposta così lunga, ma è proprio ciò che speravo. L’ho riletta più volte. Potrebbe solo da qui scaturire una quantità di domande da riempire dieci interviste. Ma due frasi mi hanno colpito su tutte: “Sognavo di entrare nella letteratura e che così facendo sarei finalmente stato felice” e “Mi rendo conto che ciò che ho scritto un’ora prima ha valore per me e per nessuno all’infuori di me”, e la seconda sembra negare la prima.
Entrare nella letteratura ti ha reso felice? O c’è qualcosa, nel ruolo di chi scrive, e di chi vive la vita senza poterla scindere dalla scrittura, che ha a che fare inesorabilmente con la frustrazione, con il sacrificio che dicevamo prima, se non proprio con la negazione della felicità?
[20:43, 15/5/2023] Gianmarco Perale: Entrare nella letteratura (ci sono entrato sul serio?) mi ha distrutto perché mi ha convinto di aver raggiunto qualcosa. Credo (ci ragiono tutti i giorni) che tutta la mia vita, tutto quello che ha senso per me, sia nel percorso che faccio per ottenere ciò che voglio. Mai nel risultato. Nell’infelicità e nelle difficoltà è nascosto il traguardo. Ho scoperto che il raggiungimento di un obiettivo ha un valore fragile. Un valore fragile. Quello che mi tiene in vita è il fuoco, lo slancio, la volontà di raggiungere qualcosa, e una volta che finisce la mia strada tutto perde senso. Si sgretola. Ricomincio ad essere triste, ma in un modo diverso. Più profondo. Sento affievolirsi la mia voglia di vivere, la fiamma di un accendino scarico. Al mattino mi sveglio e odio ancor di più me stesso per avermi lasciato senza un sogno. Mi sento orfano. Senza ambizioni. Guardo il mondo dalla mia finestra e piango (capita sul serio, non è una bugia). Più scrivo, più mi allontano dalla felicità. Mentre scrivo sono sereno, e quando finisco sono triste. E ogni giorno sempre di più. Ogni giorno ho sempre più buio intorno a me. Penso che la scrittura mi ucciderà. Ora ho una presentazione online. Ci sentiamo più tardi.
[22:41, 15/5/2023] Gianmarco Perale: Finita la presentazione.
Io non riesco a scindere le mie ossessioni e i miei tormenti dalla scrittura, perché scrivo per parlare delle mie ossessioni. Dei miei tormenti. Per liberarmi di loro, credo. Sono il sangue e lo sperma e il motore del perché scrivo. Scrivo per riviverle. Per giustificarle. Per giustificare me stesso. Per essere libero. E questo ha inevitabilmente a che fare con il mio disagio di essere umano. Il mio disprezzo per me stesso. Niente di quello che faccio è amato da me per più di un’ora. Niente. Perché quando si stacca da me diventa oggetto di giudizio. Diventa orribile. E io divento (mi confermo) un fallimento. Sacrifico tutto, e tutto ho sempre sacrificato, per la scrittura. Perché la scrittura è la mia ossessione più grande. E quando scrivo, subito poi mi odio. Ma non posso smettere. Sono un autore storpio. E non ho così tanto talento come alcuni dicono (devi credermi, è tutta una enorme menzogna, ti assicuro che è così). Sono solo un ragazzino tormentato. Che tenta disperatamente di morire ma non ha il coraggio di farlo, perché non vuole soffrire. Un codardo. Un impostore. La scrittura mi libera e un secondo dopo mi ricorda chi sono. Ricorda a me stesso che mi odio.
[omissis]
A cura di Giuseppe Rizzi

[1] Un esempio di dialogo tra Tom e sua madre in cui l’informazione viene reiterata, chiesta, richiesta, fino a provocare una sensazione straniante, sgradevole, di totale incapacità di capirsi, di comunicare, di essere connessi: “Cos’hai fatto?” “L’ho colpito.” “Scherzi?” “No.” “Con cosa?” “Gli ho tirato un pugno.” “Stai scherzando?” “No. Ha iniziato lui. Non io”. “E gli hai tirato un pugno?” “Sì.” E dove l’hai colpito?” Non ha risposto. Così ha detto: “In faccia, gliel’hai tirato?” “Lui ha colpito Poni, gli ha fatto male.” “E tu gli hai tirato un pugno?” “Sì.” “In faccia?” “Sul naso.” “Sei serio?” “Sì.” “Gli hai tirato un pugno?” “Sì.” “Sul naso?” “Sì, sul naso.”