Mi limitavo ad amare te, Rosella Postorino
(Feltrinelli, 2023)
È possibile diventare adulti quando l’infanzia è stata uno strappo? Quando la forma acconchigliata di Sarajevo si rivela essere non la culla che raccontavano nelle storie della buonanotte, ma una trappola, e allora l’unica possibilità di salvezza risiede altrove, al di là del mare? «A che cosa serve salvarsi, se nel frattempo la tua famiglia muore?» (p. 54). Crescere, in questo caso – o in qualunque caso -, significa tradire? In Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli, 2023) Rosella Postorino – autrice pluripremiata, vincitrice del Campiello nel 2018 con Le assaggiatrici (Feltrinelli, 2018) – dipana questi interrogativi indagando le vite di Omar, Sen, Nada, e Danilo, bambini di Sarajevo che diventano grandi, profughi, in Italia: «non fantasmi […], neppure eroi, […] solo comparse di una guerra» (p. 23).
L’intreccio del romanzo – proposto da Nicola Lagioia per il Premio Strega, approdato alla dozzina semifinalista il 30 marzo 2023 – scaturisce da alcuni eventi minori della storia europea degli ultimi trent’anni: il bombardamento nei pressi dell’orfanotrofio “Ljubica Ivezić” a Sarajevo, nel 1992, durante la guerra tra Serbia e Bosnia-Erzegovina, e il successivo espatrio in Italia dei bambini, inizialmente temporaneo, successivamente definitivo, con la decisione di dare in adozione a famiglie italiane alcuni di loro, senza accertarsi se i genitori fossero sopravvissuti alla guerra e ne attendessero il ritorno in Bosnia. Infatti, non tutti i bambini erano effettivamente orfani, ma erano stati affidati all’istituto da madri che non si trovavano nelle condizioni di poterli crescere.
L’incipit, collocato temporalmente nella primavera del 1992, è segnato dallo scoppio di una granata, che strappa un bambino di dieci anni dalle braccia di sua madre, durante una passeggiata nei dintorni dell’orfanotrofio dove lei l’ha lasciato cinque anni prima insieme al fratello. Il bambino, di nome Omar, che già vive nel tormento della mancanza della mamma – a differenza di Sen, suo fratello, che non accetta l’amore “a metà” che sua madre gli offre e rifiuta di incontrarla saltuariamente in orfanotrofio -, dallo scoppio di quella granata non fa che attendere il suo ritorno, convinto che la donna sia ancora viva. In orfanotrofio è Nada – una bambina bionda, senza anulare sinistro, abbandonata insieme al fratello Ivo dalla madre, una prostituta – a divenire testimone del pianto di Omar, prendendolo per mano e suggellando, con quel gesto, un’amicizia destinata a durare per tutta la vita.
Le loro vicende si intrecciano con quella di Danilo, poco più grande, che incontrano sul pullman diretto a Spalato, dove decollerà un aereo che li porterà, contro la loro volontà, a Milano. Anche Danilo sta vivendo una lacerazione: a Sarajevo, infatti, lascia la sorellina Jagoda e i genitori Predrag e Azra, due giornalisti.
All’arrivo in Italia, dove vengono smistati in strutture d’accoglienza gestite da suore più o meno tormentose, devono affrontare le difficoltà che comporta lo sradicamento in una terra straniera. A orientare le loro esistenze, il tentativo di colmare le diverse sottrazioni che il passato ha inferto loro e la consapevolezza, emergente a poco a poco, di avere a che fare con una lacerazione immedicabile.
Omar subisce come un’impostura l’amore di genitori adottivi e coltiva, per il passato, incarnato da una madre della cui esistenza non sa più nulla, una devozione paralizzante. Per Danilo, invece, il passato è un vuoto da rimuovere: rinnega l’amore dei propri genitori, che non riesce a perdonare per averlo fatto partire da solo, a quattordici anni, verso un paese sconosciuto. Nada, in bilico tra il «nulla» che il suo nome significa in spagnolo e la «speranza» che, invece, significa in serbo-croato, elabora un proprio modo di stare al mondo che, pur percependo tangibilmente le sottrazioni del passato, la àncora ad un presente e le permette di visualizzare a sprazzi, come gli schizzi dei suoi disegni, un futuro. Seguiamo le vicende di Omar, Danilo e Nada fino al 2011. Cresciamo con loro.
Mi limitavo ad amare te è un romanzo dall’impianto fortemente corale, articolato in quattro parti, parcellizzate a loro volta in cinquantacinque brevi capitoli, dove un’unica voce narrante, onnisciente ed esterna alla vicenda, restituisce nitidamente e distesamente, con grande morbidezza comunicativa, le voci interiori ed esteriori dei personaggi, avvalendosi a più riprese della tecnica del discorso indiretto libero e del dialogo. Due uniche eccezioni a questa strategia di enunciazione narrativa sono le pagine in corsivo inserite tra un capitolo e l’altro, per undici volte, contrassegnate da nessun titolo e da nessuna numerazione che, se inizialmente sembrano raccogliere la memoria collettiva di Sarajevo con continui cambi di prospettiva ed un linguaggio lirico – a tratti stucchevole -, disorientante rispetto alle scelte stilistiche compiute nel resto del libro, progressivamente si rivelano essere le riflessioni dolenti di un personaggio, che diviene quindi narratore di secondo grado; e un brevissimo capitolo, tra gli ultimi, dove un bambino molto speciale ci racconta, in prima persona, un incontro inaspettato.
Un romanzo a più voci, dunque; ma queste voci non sono solo parole pronunciate dai protagonisti. Infatti, alla restituzione delle emotività lacerate dei personaggi e ai numerosi dialoghi, fanno da contrappunto, fino alla fine dell’adolescenza, versi di canzoni e di poesie, tradizionali e pop, dai Pink Floyd a Romagna mia a Sarajevo amore mio il cui inserimento non è mai accessorio, ma risuona sempre nel tessuto di significazione del testo e lo amplifica, a partire dal titolo. Infatti, «Cosa facevi tu mentre accadeva la storia? / Mi limitavo ad amare te» sono due versi del poeta bosniaco Izet Sarajlic, rimasto a Sarajevo per tutta la durata dell’assedio, che Danilo pronuncia per Nada troppo tardi, quando lei si è già allontanata da lui e non potrà udire la confessione di un amore che rimane sospeso tra il mare e le stelle.
La motivazione storica è quindi sicuramente presente nella scrittura di questo romanzo: l’autrice intende portare alla luce una pagina poco nota della storia recente, dando voce a figure minori – in tutti i sensi –, secondo la tradizione più radicata del romanzo storico italiano, da Manzoni a Morante . E nelle vicende che sconvolgono le vite di Omar, Nada e Danilo siamo portati naturalmente a rispecchiare il nostro presente storico, dilaniato dal conflitto tra Russia e Ucraina e dal dramma di chi è costretto a lasciarsi il proprio mondo alle spalle e attraversare un mare per sopravvivere. La scrittura come forma di riscatto di destini violentati dalla guerra è anche simboleggiata dal primo degli eserghi, «Come è possibile uccidere, è anche possibile scrivere», tratto dalla prefazione scritta da Slavenka Drakulic (attenzione: Drakulic è anche il cognome di Nada) all’edizione italiana de Il centro del mondo di Dzevad Karahasan (Il Saggiatore, 1995), cronaca a caldo – l’anno della prima pubblicazione è il 1993 – dei primi mesi dell’assedio di Sarajevo.
Tuttavia, quella storica non è la funzione dominante del romanzo di Postorino, dove l’attenzione al racconto degli avvenimenti è decisamente inferiore rispetto a quella dedicata al racconto degli eventi emotivi appartenenti alle singole storie dei protagonisti, che schiudono i temi fondamentali del libro: il trauma dell’abbandono, dello sradicamento, il senso della generazione nonostante la consapevolezza della morte, il suicidio, l’amore, il diritto alla maternità e al rifiuto della maternità. Tutti questi temi hanno una portata universale, che prescinde dai fatti storici particolari che li hanno scatenati, tant’è che, ad esempio, il peculiare carattere etnico del conflitto tra Serbia e Bosnia non è centrale nel libro, così come la mescolanza culturale, linguistica, e religiosa, che ha reso Sarajevo un microcosmo unico, quell’«isola nel cuore del mondo» nei versi del poeta bosniaco Abdulah Sidran, che hanno ispirato Karahasan nella scelta del titolo del suo libro, appare solo in filigrana, nelle parole e nei dibattiti di Danilo e dei suoi genitori, intellettuali e giornalisti, figure socialmente distinte dalle altre che popolano il romanzo. Per i personaggi di Postorino, infatti, Sarajevo è il centro del mondo semplicemente perché lì sono nati e da lì sono stati costretti a fuggire. La città diviene figura del grembo materno da cui sono stati strappati.
Ma, sembra dirci Postorino, questo strappo riguarda ognuno di noi: la prima forma di lacerazione in cui noi tutti incappiamo è la nascita. In questo senso, la guerra e l’espatrio catalizzano un processo che è sempre già in atto nella condizione umana: la prima forma di separazione è dal corpo di nostra madre. Mi limitavo ad amare te è un romanzo sulla lacerazione costitutiva grazie alla quale – o nonostante la quale – siamo al mondo.
«“È strano pensare che il corpo che ti ha messo al mondo non sia più al mondo, che il luogo da cui hai avuto origine sia scomparso, è come se il mare avesse inghiottito la terra in cui sei nato. Mi pare meno reale anche la mia esistenza, ora che le manca l’inizio, mi sento meno reale io”.
“È un po’ come essere profughi, a pensarci.”
“La Bosnia esiste ancora, mia madre no.”» (p. 292)
«Ma dalla madre, chi ti salva?» interroga il secondo esergo, dall’Isola di Arturo: Postorino non dà risposte, ma, con il lieto fine, per quanto sofferto, sembra suggerire che una salvezza è possibile. Ed è custodita nel gesto che chiude il romanzo. Nell’ultima pagina di Mi limitavo ad amare te vediamo un bambino regalare ad un uomo che piange un amuleto: è una scatoletta di plastica dove sua madre gli ha suggerito di raccogliere le lacrime dei pianti di quando, più piccolo, non voleva andare a scuola, per poterle vedere evaporare e constatare, nel loro rapido dissolversi, il carattere effimero del suo dispiacere. Quasi a significare che l’eredità è qualcosa che non arriva dal passato, sotto forma di condanna, ma dal futuro, come dono che aiuti ad alleggerire il pianto.
Ginevra Portalupi Papa
Foto in evidenza di Fiona Art: https://www.pexels.com/it-it/foto/arte-trama-astratto-bianco-4750208/