L’Orecchio di Kiev, Andrei Kurkov
(Marsilio Editore, 2023 – Trad. C. Zoghetti)
Kiev 1919, la guerra civile tra i “bianchi” e i “rossi” è il rumore di fondo della vita di tutti i giorni. La confusione regna sovrana. Il giovane Samson ha perso tutta la sua famiglia, così come l’orecchio destro durante l’uccisione del padre da parte di un cosacco. Tale perdita avrà però degli effetti assolutamente inaspettati, come tutte le vicende de L’Orecchio di Kiev, romanzo dello scrittore ucraino Andrei Kurkov nella cinquina finalista del Premio Strega Europeo 2023. Samson si ritroverà a fare il poliziotto per puro caso, finendo implicato in un’indagine rocambolesca, che cercherà di portare a termine nonostante la sua avventatezza da dilettante.
L’Orecchio di Kiev racconta una guerra piuttosto lontana nel tempo, dipinta però con una precisione tale da immergerci in poche pagine nell’atmosfera instabile e folle dell’epoca, con un ritmo che tiene il lettore incollato alla pagina. All’interno di una cornice tradizionale come quella del poliziesco, Kurkov riesce a stupirci in un percorso mai scontato, che mantiene quella freschezza propria solo dei veri narratori.
Ho avuto la fortuna di dialogare con Claudia Zonghetti – traduttrice tra gli altri di autori del calibro di Gogol’, Tolstoj, Bulgakov, Grossman – sul suo lavoro di traduzione de L’Orecchio di Kiev, ma anche sugli effetti della recente guerra sulla letteratura russa, sui problemi della traduzione e sull’atteggiamento del traduttore nei confronti del testo.
Ho sempre pensato al lavoro di traduzione come a una sfida sempre diversa a seconda dell’autore che si affronta, ma anche da opera a opera di uno stesso scrittore. Che tipo di sfida è stata tradurre L’Orecchio di Kiev di Andrei Kurkov?
È stata prima di tutto una sorpresa. E ho accettato per mettermi in gioco con uno scrittore abile nel creare trame e in cui la storia e la Storia hanno un ruolo importante. Abile Kurkov è anche nell’uso della lingua, che pur priva di particolari audacie linguistiche, stilistiche e sintattiche, è linearmente perfetta nel tenere il lettore avvinghiato al testo.
Mi interessava moltissimo, inoltre, che fosse uno scrittore ucraino di lingua russa il cui successo – nella seconda metà degli anni Novanta – era di fatto nato in Europa. Un iter che è sicuramente un unicum o quasi. Certo, con le recenti tragedie, il fatto che i suoi ultimi romanzi siano usciti contemporaneamente in russo e ucraino ha provato a stemperare l’inevitabile discussione sulla sua appartenenza a quella letteratura e sul “linguicidio” (così il pubblicista Petro Taraščuk) orchestrato a detta di molti ai danni della lingua ucraina, oltre che sulla sudditanza coloniale dal mercato in lingua russa, più “facile” da esportare. La questione della lingua è ovviamente e fortemente legata alla questione identitaria nazionale, tanto più con la guerra in corso. Se per alcuni parlare di “letteratura russofona ucraina” è un non senso e il patriottismo non basta a fare rientrare uno scrittore russofono nella letteratura nazionale, altri propongono la dizione “letteratura d’Ucraina” per tagliare la testa al toro. Ma su queste questioni è sicuramente molto più utile leggere gli esperti, e mi riferisco al libro di Marco Puleri, per esempio, Narrazioni ibride post-sovietiche[1].
Di suo Kurkov ripete con decisione che – cito – “Putin non ha il copyright sull’uso del russo”, e anzi sembra quasi voler scrollare di dosso alla lingua le sue grinfie da occupante (come fa, per esempio, anche il bielorusso Saša Filippenko, adducendo ragioni analoghe). Altrettanto interessante è che fino a qualche anno fa fossero annunciate collaborazioni fra scrittori russofoni e ucrainofoni, e che Serhij Žadan, per esempio, avrebbe dovuto collaborare proprio con Andrej Kurkov.
Il fatto che sia uno scrittore ucraino influisce in qualche modo sulla sua lingua?
È uno scrittore russofono, e mi guardo bene dallo sfoderare paragoni con Gogol’ o Bulgakov. Se Gogol’ fece sfrigolare il russo dell’epoca contaminandolo con l’ucraino, Kurkov scrive in un russo pulito e lineare. Nemmeno la toponomastica porta le tracce dell’ucraino, e difatti è rimasta in russo, rispettando la scelta dell’autore.
Il titolo originale del romanzo – Samson i Nadežda – richiama il nome del protagonista e della ragazza che vorrebbe sposare. Com’è avvenuta la scelta del titolo italiano?
Il titolo italiano è stata una scelta della redazione. Inevitabile, direi. L’Orecchio di Kiev mi sembra tra l’altro un’idea brillante, con ovvi rimandi al Naso di Gogol. Il titolo originale era Samson e Nadežda: Sansone e Speranza, di fatto (e che non avremmo ovviamente potuto tradurre), due nomi che “parlano” al lettore russo e decisamente meno a quello italiano.
L’Orecchio di Kiev è stato pubblicato nel 2022 e arriva già ora a inizio 2023 in Italia. La guerra in Ucraina ha accelerato l’arrivo di questo romanzo nel nostro Paese?
Diversi romanzi di Kurkov erano già stati pubblicati in Italia da Keller, dunque non si tratta di un esordio. D’altro canto è innegabile che scrittori che provengono da quell’area geografica ora abbiano un’attenzione diversa, ma è una conquista, una ricchezza, una miccia per una curiosità che troppo spesso si ferma di fronte ai medesimi “cancelli letterari”. Non c’è bisogno di dire che non ci sarebbe voluta una guerra per scoprire i poeti ucraini, la storia ucraina e gli scrittori di quel paese.
I nomi dei due soldati dell’armata rossa che hanno un ruolo centrale nella vicenda – Fëdor e Anton – sembrano richiamare quelli di Dostoevskij e Čechov. La mensa presso cui spesso il protagonista si reca si trova proprio in via Čechov e rappresenta uno dei luoghi che ricorrono più di frequente ne L’Orecchio di Kiev, come se – metaforicamente – questo autore fosse una fonte a cui fare riferimento e da “attraversare” quotidianamente. Credi che ci sia un riferimento in questo senso?
Se è vero che Anton e Fëdor sono due nomi molto comuni, lo è altrettanto che il tuo sospetto sia lecito. La “democraticità” dei personaggi di Kurkov potrebbe avere ambizioni čechoviane, ma questo tipo di paragoni lascia un po’ il tempo che trova…
Ho notato che nella traduzione hai fatto ricorso in alcuni casi a parole ed espressioni non comuni o desuete (come “frego” o “alla bisogna”) o a regionalismi: ad esempio a un certo punto compare “sbrego” per indicare un taglio su una giacca, parola in uso praticamente soltanto nel Nord d’Italia. Come mai hai scelto di attingere a queste particolari fonti linguistiche?
Il romanzo ha come sottotitolo “retrodetektiv”, è un giallo storico di fatto. E quel “rétro” ogni tanto si riflette nell’uso di espressioni “arretrate” nel tempo. A fronte di una sintassi essenzialmente paratattica e semplificata, questi “punti di luce” andavano conservati, così come i casi in cui il registro si abbassava, virando verso la macchietta (i cinesi, e l’olandese finale) o il popolare: da qui la ricerca di regionalismi, e non forme dialettali, che colorassero un po’ la frase.
Samson ha perso praticamente tutta la famiglia, si ritrova completamente solo. Eppure nelle pagine del romanzo non si avverte mai la rassegnazione o il desiderio di lamentarsi, ma una specie di accettazione del destino. Credo che questo discorso valga anche per tutti gli altri personaggi che incontra nel corso della vicenda. Si può parlare di resilienza – una parola che va molto di moda oggi – oppure credi ci sia una sorta di “fatalismo”?
Fatalismo e anche candore, se non addirittura ingenuità, direi. Il dolore di Samson non prende mai forma: non c’è strazio nemmeno quando il padre viene ucciso. È come se non avesse tempo di provare dolore, ne dà semplicemente la notizia. L’epoca è tale da passare sopra il dolore del singolo, questa è l’impressione. Nadežda e il suo imprimatur di perfetta lavoratrice sovietica ne è l’esempio lampante. Siamo al limite del grottesco: i personaggi si muovono nella grande Storia senza raccapezzarcisi troppo e adattandosi volta per volta a cambiamenti quotidiani. Samson si ritrova per puro, purissimo caso (solo perché sa scrivere bene i verbali) a fare il poliziotto e di fatto a servire una giustizia che non c’è e che spesso, anzi, devia dalla retta via.
Kurkov muove i suoi personaggi in una sorta di continuo “stupore controllato”, senza creare tipi riconoscibili e semplicistici, ma porgendo al lettore le complicazioni e le assurdità – grottesche, lo ripeto – di un periodo storico complicato. Muove le sue figure in mezzo alla Storia, ma della Storia i suoi personaggi sono di fatto in balìa. Sono portati da questo flusso e neanche provano a opporsi, ritrovandosi in situazioni a cavallo tra il comico e il tragico. Quasi à la Buster Keaton, mi verrebbe da dire.
Qualche tempo fa ho sentito una frase che mi ha colpito molto (sebbene non ricordi da chi e in che occasione fosse stata pronunciata): “La traduzione non è l’opera, ma una strada che conduce all’opera”. Sei d’accordo con questa visione?
Direi soprattutto che la traduzione non è l’opera. È un’opera, ma non è l’opera originale. E in questo senso sì, ogni traduzione è il percorso di avvicinamento verso di essa e un autore straniero è, di fatto, la somma delle sue traduzioni, che si affiancano e non si sostituiscono fra loro.
Ha scritto Emmanuel Levinas che ogni nuova traduzione toglie qualcosa al silenzio. Ecco, ogni traduttore fa la sua parte nel sottrarre al silenzio qualcosa di un’opera letteraria. E forzatamente ognuno lo fa a suo modo. Di fronte a un testo, quando lo studio dell’autore si “posa”, si resta a tu per tu con la pagina: il traduttore con il suo bagaglio di letture, la sua capacità di stanare parole, le sue idiosincrasie verbali e lessicali (sorvegliate più che si può, ma spesso fisiologiche), la sua creatività al servizio dell’autore che traduce e che – lo ripeto ogni volta – non per questo esce limitata, tutt’altro. Siamo plurali di un singolare, ma è una ricchezza, non un difetto.
Una volta ho intervistato la germanista e magiarista Claudia Tatasciore, alla quale non piaceva considerare la traduzione come una riscrittura, ma preferiva piuttosto parlare di un “aspetto creativo” della traduzione.
Di qualche anno fa è una discussione fra traduttori tra chi chiedeva di essere considerato co-autore dell’opera e chi no. Io non mi sento co-autrice di Anna Karenina o dei Fratelli Karamazov o dell’Orecchio di Kiev, ma sono senz’ombra di dubbio l’autrice di una loro traduzione. La mia autorialità è subordinata, ma lampante; è “sorvegliata”, ma comunque ovvia.
Io scrivo una traduzione, non riscrivo un’opera: sono autrice di quanto riesco a fare con il mio strumento partendo dall’originale. Avendo cura di usare il massimo rispetto per quello che maneggio, cercando di conoscerlo al meglio per renderlo al meglio. Scrive Milan Kundera ne I testamenti traditi che una volta Stravinskij disse ad Ansermet – direttore d’orchestra che avrebbe voluto togliere tredici battute dal suo Jeu des cartes: ‹‹Questa non è casa sua››. Ecco, mi capita di citarlo spesso ai giovani traduttori: ‹‹Ricordatevi che non è casa vostra. Al massimo vi prestano le chiavi per un po’.››
Quali sono gli autori russi emergenti che secondo te bisognerebbe tenere d’occhio per gli anni a venire?
Dirò una banalità: il panorama è vasto e variegato. Ma, e soprattutto, in questi ultimi mesi la tragedia della guerra ha da una parte (in Russia) cancellato alcuni autori e dall’altra (in Italia) ha forzatamente rallentato pubblicazioni già non facili. Prima fra tutti, è mancata la possibilità di ricevere finanziamenti alle traduzioni dalle due fondazioni che se ne occupavano, e questo ha fatto sì che soprattutto gli editori medio piccoli (sicuramente i più attivi nella scoperta della letteratura contemporanea) abbiano quasi sospeso le pubblicazioni di letteratura russa. Certo, di grande interesse sono i testi giornalistici. Personalmente ne ho tradotti e curati due, Valerij Panjuškin (L’ora del lupo, E/O) ed Elena Kostjučenko (La mia Russia, Einaudi, traduzioni di Castorani, Mecco, Mini, Sorrentino, Stefanelli): utilissimi per chi volesse capire davvero cosa sta succedendo.
La narrativa russa ha i suoi nomi di punta: Evgenij Vodolazkin, Vladimir Sorokin, le “mie” Narine Abgarjan e Guzel’ Jachina, fino al postmodernismo concettuale di Pavel Pepperštejn, alle atmosfere raffinate di Marina Stepnova, alla lingua poetica di Marija Stepanova, o alla grande sapienza di Dmitrij Bykov. Ne lascio forzatamente fuori molti altri, ma ci tengo a privilegiare coloro di cui, volendo, i lettori italiani possono già farsi un’idea propria cercando tra gli scaffali delle librerie. Diversi di loro sono già stati tradotti. Cercateli, non ve ne pentirete. E non scordatevi nemmeno dei “monumenti” della letteratura russa dell’ultimo secolo: Ljudmila Ulickaja e Ljudmila Petruševskaja.
A cura di Giacomo De Rinaldis
[1] Firenze University Press, 2016