Le cose di Benni: lo schizofrenico esordio di Gianmarco Perale

Le cose di Benni, Gianmarco Perale
(Rizzoli, 2021)

Una città schizofrenica come la fredda e uggiosa Milano e un tempo schizofrenico come il contemporaneo, fatto di impegni serrati e conversazioni delegate a brevi messaggi digitali. Non potevano essere migliori le coordinate su cui costruire una storia che già dalle prime scene promette di essere schizofrenica anch’essa.

Davide/Drago/Dudi (già la pluralità di nomi posseduti la dice lunga sulla fibra psichica) è un giovane ventenne all’apparenza normalissimo: studia all’università, ha un lavoretto come cameriere con il quale si mantiene e passa il suo tempo con gli amici di una vita. Con una in particolare: Benni, con la quale è cresciuto e che ha con lui un rapporto molto intimo. Da subito, tuttavia, capiamo che i due non intendono questa intimità allo stesso modo. Drago infatti prova per Benni qualcosa che va al di là dell’amicizia, per quanto profonda possa essere. È evidente a tutti: agli amici che cercano di convincerlo a togliersela dalla testa, a Benni che fa finta di nulla, a Drago stesso, sebbene continui a negare nascondendo il sentimento.

Il sentimento in questione, però, non è il classico amore romantico, che renderebbe tutta la narrazione una fiacca e sterile storia di friendzone, l’ennesima variazione sul tema del “non roviniamo la nostra bella amicizia”. È un’ossessione frenetica e, appunto, schizofrenica che esclude dalla vista di Drago ogni persona e ogni cosa che non sia Benni. Tutto nella vita del protagonista, con un andamento sempre più degenerativo, diventa un mezzo in vista di Benni, uno strumento da adoperare per ottenere informazioni su Benni, stare vicino a Benni, prendersi cura, in un senso morboso, di Benni.

Anche lei, dal canto suo, ha la sua dose di ossessioni e disturbi. Sono proprio questi, in fondo, a mettere in moto l’animo apprensivo di Davide. Ma mentre le ossessioni di quest’ultimo scavano in profondità, grattano continuamente il terreno sociale intorno ai due alla ricerca di qualcosa, pungolano tutto e tutti con un assillo lento e costante, quelle di Benni esplodono. Certo, è un’esplosione silenziosa, o che quanto meno Drago non riesce a sentire come vorrebbe, ma è un’esplosione comunque violenta, visibile a tutti, in un modo o nell’altro.

L’autore sviluppa la narrazione alternando tenerezza e tormento. Se la prima spesso sfiora il teen drama, il secondo odora quasi di thriller. Se da una parte i due ancora-adolescenti (perché questo sembrano i protagonisti) commuovono quando si addormentano sul divano di fronte a un DVD di Spielberg o quando scrivono frasi di Lucio Dalla sulle doghe del letto, dall’altra spaventano nella nonchalance con cui infrangono promesse, rivelano segreti e minimizzano gravi ferite.

Tutta questa ambivalenza si riscontra anche nel protagonista stesso, che è anche io narrante. Da un certo punto di vista risulta antipatico, si porta dietro un vittimismo insopportabile e quasi ogni sua scelta è passivo-aggressiva. Non fa altro che spacciare azioni moleste, spietate e malate per interesse sincero verso il benessere di Benni. Da un altro lato, però, intenerisce anche lui, nelle reazioni molto fisiche che l’autore gli addossa, come il freddo gelido che lo prende d’un colpo o le mani e la faccia accaldate, o nello stesso amore disperato che lo confonde e ci confonde. Ma questo non basta comunque a farsi amare. Al più compatire. Vive insomma fra la pena e lo sdegno.

La parte più interessante e affascinante del romanzo non è tanto la storia in sé, quanto lo stile di scrittura dell’autore e il modo con cui questo si accorda al tema trattato. Perale scrive di ossessione e lo fa in modo ossessivo. La struttura del testo non è altro che un frenetico scambio di botta e risposta, intermezzato sporadicamente da descrizioni superficiali dell’ambiente o azioni dei personaggi. Se non fosse scritto in prima persona si potrebbe tranquillamente dire che assomiglia più a una sceneggiatura che a un romanzo. Sebbene sia Drago a raccontare, l’accesso ai suoi stessi pensieri ci è per lo più precluso e possiamo soltanto dedurli da ciò che dice nei fiumi di dialoghi che dominano l’opera.

Qui sta il grande punto di forza del romanzo. Il ritmo impetuoso dei dialoghi non soffoca per nulla la storia, ma anzi dà fiato a tutti i personaggi, anche quelli secondari, permettendo loro di caratterizzarsi da sé, attraverso la loro viva voce.

Tuttavia, le scelte stilistiche audaci hanno sempre un prezzo da pagare. In questo caso consiste nel rischio di ripetere, nel corso dei botta e risposta, alcuni stilemi fissi o di confondere la narrazione. Perale sfiora questi pericoli optando per una prosa molto asciutta, sia dentro ai dialoghi che fuori. Tutti i personaggi, a prescindere dall’età e dal temperamento, rischiano a volte di sembrare un’unica voce. La sensazione è che la caratteristica parlata compulsiva di Drago, fatta di espressioni ricorrenti e martellanti come il “Capisci?” messo spesso a conclusione di battuta, a volte strabordi contaminando le parole (e i silenzi) degli altri. Tutto sommato, però, si tratta di un rischio che è inevitabile correre nel contesto di un’impalcatura dialogica così serrata.

Ogni volta che esce un romanzo molto sperimentale, soprattutto se si tratta di un esordio, a prescindere dalle reazioni che poi effettivamente produrrà sul pubblico, quest’ ultimo sembra essere spinto da quella che è anch’essa una sorta di schizofrenia bipolare. Si tratta della convinzione profonda, non sempre esplicitata, che un prodotto sperimentale non possa fare altro che correre su un’opzione binaria: o sarà una geniale opera di rottura, destinata a consacrare l’autore, oppure sarà un flop clamoroso, che ammanterà il suddetto e il suo testo con accuse di spocchia e pretenziosità.

Le cose di Benni di Gianmarco Perale è la dimostrazione che esiste invece una solida via di mezzo, popolata da libri originali come questo, e che l’audacia è sempre ben accetta, purché si scriva bene.

Giuseppe Vignanello

 

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