La parola “vestita a lutto” di Naja Marie Aidt

Se la morte ti ha tolto qualcosa, tu restituiscilo, Naja Marie Aidt
(Utopia Editore, 2021 – Trad. I. Basso)

9791280084323_0_0_519_75Il filosofo Epicuro sosteneva l’insensatezza della nostra paura nei confronti della morte, con la quale noi non abbiamo mai realmente a che fare: quando ci siamo noi, non c’è lei, mentre quando lei c’è, noi già non ci siamo più. La morte sarebbe dunque qualcosa di irrappresentabile, un assoluto non-essere. Eppure essa può diventare una  presenza insostenibile, come nel caso della scrittrice danese Naja Marie Aidt, che in Se la morte ti ha tolto qualcosa, tu restituiscilo (libro da poco pubblicato da Utopia Editore, con la traduzione di Ingrid Basso) racconta la morte del figlio, tentando di dare una forma letteraria al silenzio e al vuoto che sono seguiti a questo tragico evento.

Si tratta di un’opera inclassificabile: non è un libro di poesie, né un romanzo né tantomeno un saggio. Il lettore si trova davanti ad una sorta di contenitore di frammenti: una collezione di poesie, citazioni, definizioni dal dizionario, pagine di diario che intervallano la narrazione della morte di Carl, la quale inizia e si interrompe continuamente, ripetendosi come un leitmotiv che ad ogni sua apparizione svela elementi nuovi. Non è dunque un semplice libro che descrive una situazione emotiva, ma rappresenta una vera e propria esperienza, che conduce chi legge direttamente al centro di un dolore estremo.

Per raccontare la sua condizione Aidt non può che servirsi della lingua, la quale è però uno strumento assolutamente imperfetto, in quanto la realtà a cui solitamente si riferisce ha smarrito ogni senso: le sue parole sono vestite a lutto, hanno perduto ogni forma di bellezza. La scrittura del suo dolore non può che essere rotta come un singhiozzo, perché racconta la realtà assoluta della morte, cioè la non-realtà di cui parlava Epicuro e che solo il silenzio è in grado di descrivere: Aidt afferma infatti che ‹‹Comprendere l’incomprensibile non è affare della lingua››. L’unico strumento linguistico che può rappresentare in qualche modo questa esperienza di vuoto sono le virgolette, le quali mettono tra parentesi le cose che contengono, privandole del loro significato. Esse descrivono uno stato di sospensione dalla realtà e suggeriscono l’impossibilità di qualsiasi presa del linguaggio sul mondo.

Se la lingua non può contenere l’assenza, lo stesso non si può dire del corpo della scrittrice-madre, la quale sente una solitudine indicibile per via di un estremo legame col figlio, che è fisico e simbiotico sin dalla gravidanza. La madre sente ancora il figlio dentro di sé e finisce col disprezzare e picchiare il suo stesso corpo, che percepisce come un segno colpevole della nascita di qualcosa che è morto: esso rimanda in continuazione all’assenza di ciò che ha generato.

‹‹Lui è dentro di me.

È dentro il mio corpo.

Porto il suo essere nel mio corpo.

Lo porto ancora dentro il mio corpo.

Come quando giaceva nel mio utero.

Ma ora è la sua vita intera che io porto.

Io porto la tua vita intera.›› [1]

In diversi passaggi Aidt sostituisce alla prima persona singolare un Noi impersonale: il Sé della madre ha inglobato anche il figlio, ma si è anche completamente annullato perché nel contenere un vuoto ha perso la propria identità originaria. Ma oltre all’Io a sgretolarsi è anche il tempo, il quale ha perso ogni direzione e galleggia sopra un indistinto e liquido “Adesso”. Il tempo non è più una linea continua, ma viene descritto come una sfera che trattiene e blocca, in cui non accade più nulla e nella quale non si può più vivere, ma soltanto “funzionare”.

Questa immagine della temporalità fa coincidere la forma frammentaria del libro con il suo contenuto: possiamo pensare a Se la morte ti ha tolto qualcosa, allora restituiscilo come ad un non-testo, in cui l’ordine del tempo è stato completamente spezzato. Un testo è infatti (etimologicamente parlando) un tessuto che concatena i fili dei concetti e degli eventi all’interno di uno stesso tempo. Nell’opera di Aidt i fili del tempo sono stati recisi: nulla si tiene assieme. Essa è proprio come la tela di Penelope, la quale col suo sfilare di notte le trame tessute di giorno non faceva altro che sconvolgere l’ordine temporale, finendo col rappresentare per sottrazione ciò che è in realtà irrappresentabile: l’assenza ed il non-tempo dell’attesa.

Giacomo De Rinaldis

[1] pp. 106-107, versione in e-pub.

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