La distruzione come evasione: i racconti di Francesca Mattei

Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa, Francesca Mattei
(Pidgin Edizioni, 2021)

copertina libroL’unica cosa che ci rende capaci di affrontare le nostre vite è l’illusione di averne il controllo. Quando questa viene a mancare, cosa succede alle persone che sono costrette a riconoscere la propria impotenza?

Rispondono a questa domanda i 17 racconti di Francesca Mattei, raccolti in Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa, di cui 7 già editi da riviste come SPLIT, Verde Rivista, l’Elzeviro, Clean Rivista e Voce del Verbo. I protagonisti delle storie sono tutti ragazzi che si sono arresi, già così giovani o soprattutto per via della loro giovinezza, alla placida realtà grigia, statica, stagnante della periferia in cui vivono. Il loro ambiente li plasma come se diventasse parte della loro pelle, rendendoli simili fra loro: senza cambiare mai, intrappolati nelle sabbie mobili delle stesse situazioni, delle stesse giornate, nella claustrofobica ridondanza delle stesse serate, degli stessi amici, delle stesse risate. Non concepiscono il cambiamento, di conseguenza non cambiano nulla, anche nei casi in cui potrebbero tentare di farlo. E se non possono migliorare la loro vita, o la anestetizzano con l’abuso di sostanze o si crogiolano nel piacere di distruggerla, come nel caso della protagonista del racconto da cui deriva il nome della raccolta, che dopo aver assistito inerme agli eventi della sua storia, compie la significativa scelta di bruciare la sua stessa casa.

Il racconto è il mezzo perfetto per ritrarre la drammatica immobilità di un personaggio statico, che manca quindi di un effettivo sviluppo narrativo. Con uno stile incisivo e accattivante, dai periodi brevi, schietti e vividi come una spruzzata d’acqua gelida, l’autrice ci mostra i lati più oscuri e incongruenti di queste persone. La maggior parte delle volte in prima persona, i personaggi ci raccontano con apparente noncuranza gli aspetti più tragici delle loro vite, in tono neutro, senza ricercare pietà, perdono o consolazione. Rivivono la loro biografia non per trovare una spiegazione a quello che è successo, ma piuttosto come se stessero pensando ad alta voce, ripercorrendo il filo degli avvenimenti accaduti.

Scevri dalle solite retoriche paternalistiche che popolano un’intera letteratura a riguardo, i racconti di Mattei affrontano senza mai ricadere nel banale, nel didascalico o nella predica questioni importanti come la malattia mentale, il disturbo alimentare, l’autolesionismo, l’alcolismo e l’abuso di droghe. «Argomenti che fanno parte della vita di tutti i giorni di una gran parte della popolazione mondiale», sottolinea l’autrice in un’intervista di (n)Trame, il podcast di Andrea Donaera incentrato sugli scrittori esordienti, «e che quindi non hanno bisogno di essere raccontate in un certo modo, secondo me.»

Gli studi in Sociologia della ricerca sociale forniscono a Francesca Mattei la base di conoscenze scientifiche dei disagi che racconta, senza però il rischio di rendere accademico il suo punto di vista: al contrario, l’autrice mantiene uno sguardo al contempo scientifico e umano, privo di giudizio e moralismi, nei confronti dei suoi personaggi. In un certo senso, è esattamente la stessa cosa che succede in un racconto della sua raccolta, Smalto, dove uno psichiatra che ha sperimentato l’inefficacia di un approccio medico sulla paziente che gli sta di fronte, si alza dalla sedia e si va a mettere seduto sul letto, accanto a lei, dalla sua stessa parte anziché in opposizione. La paziente smette di essere tale e diventa una ragazza come tante altre, riacquisisce la sua umanità, ed entrambi scoppiano in una risata liberatoria.

Giudicare dei comportamenti come devianti, da una distanza di sicurezza gerarchica, aiuta davvero le persone che vivono questi disagi? O aiuterebbe di più smettere di evitare il loro sguardo, sedersi accanto a loro e vedere le loro necessità per quello che realmente sono: umane, legittime, presenti, anziché sintomi interamente provocati da uno stato mentale o una malattia cronica? Nonostante nei racconti vengano affrontati temi forti di questo genere, con un realismo crudo e asciutto e con rari lieto fine, la principale sensazione che ho provato leggendoli è stata di sollievo.

Cresciamo e ci formiamo attraverso le pressioni e le aspettative di una società sempre in movimento ed estremamente competitiva, che ci costringe a mostrarci perfettamente funzionali e coerenti, anche quando la nostra interiorità ci appare irrazionale e contraddittoria. Dobbiamo essere sempre pronti, puliti, socialmente accettabili e splendenti, sempre al pieno delle nostre forze, produttivi, che affrontiamo con coraggio e successo i nostri ostacoli. È inutile piangere sul latte versato, assecondare i nostri più profondi e insensati impulsi emotivi, poltrire e procrastinare i nostri doveri, è inutile sentirsi in colpa, soffrire, è inutile sentirsi inutili. Sono istinti a cui viene dato ampio respiro nei testi di Mattei, che fanno parte dell’esperienza umana e che, allo stesso tempo, per funzionare nella società di cui facciamo parte, dobbiamo necessariamente reprimere.

Il senso di sollievo di cui parlo è lo stesso sperimentato in Le vespe d’agosto, uno dei racconti della raccolta, ambientato a una festa di compleanno. La protagonista, una ragazza appena uscita da una relazione importante, sente costantemente sulla pelle il prurito dell’etichetta strappata male di un vestito, che diventa così metafora delle costrizioni sociali a cui viene esposta davanti agli altri invitati. Quello del corpo è un espediente narrativo che viene impiegato nella maggioranza dei racconti: tramite le ferite, le sensazioni, le trasformazioni, il corpo diventa l’interfaccia con la realtà, lo specchio che rivela cosa sta davvero succedendo a quella determinata persona.

È nel momento in cui arriva la torta e le luci si spengono che la ragazza prova finalmente un attimo di sollievo: «A causa di una piccola incomprensione sull’interruttore, la luce rimane spenta più a lungo del previsto. E allora mi sembra che sia calato il sipario, che ci sia un attimo di riposo. Penso sia rilassante stare così, nell’oscurità. Allenta la pressione. E mi sembra che anche gli altri tirino un sospiro di sollievo, smontino il sorriso e si concedano un’espressione qualsiasi, un gesto di stanchezza.»

Al di là di ogni morale a riguardo, nei racconti di Mattei il lettore può sentirsi compreso, accolto nella sua esistenziale inutilità di essere umano, nella sua incapacità di affrontare sempre di petto le cose, di risolvere definitivamente gli insolubili problemi di una vita. Gli si concede un momento senza luce, in cui anche lui può riposare la faccia, smettere per un po’, se vuole, di essere ottimista. Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa è un un manifesto universale, uno sfogo che non ricordiamo o non vogliamo credere di aver composto, scritto da quella parte oscura e scomoda che, presi dalle nostre difficoltà quotidiane, dobbiamo per forza di cose riporre in un angolo buio e freddo della nostra coscienza.

Davide Lunerti

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