Ottessa Moshfegh: una scrittura ch’è un pensiero intrusivo

C’eravamo quando Effy Stonem ci dava l’illusione che la tristezza sarebbe stata una maschera molto chic da portare, quando Lana del Rey romanticizzava una melanconia un po’ vintage, e quando Tumblr ci suggeriva che vestirci e truccarci di nero ci avrebbe reso affascinanti. Il nome del branco era uno solo: sad girls. Ed è una suggestione che esiste ancora: nella musica, nel vestiario, nei libri. Attribuirsi una bandiera in virtù di quello che ci piace dà sempre molta soddisfazione: prendiamo l’isteria di una Sylvia Plath e la contemporaneità di una Sally Rooney e ne uscirà Ottessa Moshfegh (della quale non a caso è uscita, pochi giorni fa, un’intervista dal titolo: My sad girl fans concern me).

Ne hanno parlato come della scrittrice che meglio definisce una sensazione molto specifica del nostro decennio: being alive while being alive feels terrible.
Effettivamente, in Moshfegh, il mero esistere, o meglio il sentirsi esistere, è insopportabile. È la portavoce di quella sensazione immobilizzante ed estremamente caotica che viene dall’avere troppi stimoli, tutti sbagliati. Porta in scena una crudeltà immensa, indicibile, nella stessa maniera in cui un pensiero intrusivo di cui fatichiamo a liberarci insiste per farci contemplare idee assurde, grottesche, quando non inquietanti.

I primi lavori di Moshfegh che hanno ottenuto una certa risonanza sono stati alcuni suoi racconti usciti su The Paris Review, i primi dei quali avevano dei titoli piuttosto significativi: Disgust e Bettering Myself. Di fatto, già i racconti brevi portavano in scena una cattiveria viscerale, che lascia sempre sfumato il confine tra l’amara ironia e il vero e proprio disagio esistenziale. Nelle sue successive prove letterarie, la sua capacità di affondare lo spillo negli angoli più conturbanti e fastidiosi dell’esperienza umana è solo aumentata; è però in Lapvona (uscito in Italia nel 2023) che Moshfegh raggiunge il suo picco più materico. Lapvona è, senza mezzi termini, un susseguirsi di eventi traumatici, di crudeltà compiute nel nome della sete, della fame, di un Dio a cui nessuno crede ma che nessuno ha il coraggio di smettere di venerare, di un amore che sempre più spesso sa oscillare solo tra noia e bestialità.

Non solo nel rapporto con gli altri, però, si consuma la crudeltà dei personaggi di Moshfegh: la loro interiorità sa essere altrettanto spietata e scioccante, forse anche più delle azioni che essa stessa detta. Anche qui, si tratta di personaggi che ammettono candidamente agli occhi dei lettori verità e pensieri che nessuno vorrebbe mai attribuire a sé; e lo fanno con una quiete e un savoir faire che può essere permesso solo dalla enorme distanza narrativa che la scrittrice interpone tra loro e chi legge. In questo modo diventa possibile (o quantomeno sopportabile) assistere a una varia sorta di teatro degli orrori, mascherato da convenzione borghese.

Ad esempio la protagonista de Il mio anno di riposo e oblio, isterica e frustrata dalla vita nell’Upper East Side, si convince che la strada per la rinascita passi per un lungo periodo di letargo medicalmente indotto, così s’imbottisce di Klonopin, Ambien e Seroquel per ridurre al minimo indispensabile le ore di veglia. Da questo lunghissimo sonno spera di uscire, alla fine, ripulita: dall’amarezza, dal peso delle sensazioni, e in un certo senso dai sedimenti che si sono accumulati in due milioni di anni di evoluzione. Il suo sguardo sul presente è così apatico da trasferire questo appiattimento venato di disgusto anche su tutto quello che la circonda:

Mi sembrava che tutto ormai fosse in qualche modo collegato a riprendere quello che avevo perso. Potevo immaginare me stessa, il mio passato, la mia psiche, come un camion della spazzatura pieno di rifiuti. Il sonno era il pistone idraulico che sollevava il cassone del camion, pronto a buttare tutto da qualche parte […]. Temevo che le cose sarebbero rimaste così per sempre.1

La focalizzazione sul punto di vista di un unico personaggio accomuna questo romanzo a tutti i precedenti di Moshfegh, insieme al più recente La morte in mano. Non è irriducibile individualismo, anche perché l’ultimo romanzo della scrittrice, Lapvona, ha un andamento corale: segue le vicende di un intero villaggio, e l’ambientazione non è moderna (né, come in Eileen, novecentesca) bensì pseudomedievale. Si tratta semplicemente della scelta di privilegiare un’interiorità inarrestabile e feroce.

È questo, forse, il maggiore pregio di Moshfegh – la sua capacità di costruire storie coerenti nella crudezza e nella crudeltà delle loro suggestioni, pur essendo in grado di spaziare in quanto ad ambientazione fisica e storica, abbracciando luoghi narrativi anche molto diversi fra loro: da Manhattan all’Europa rurale, dai tragicomici anni Duemila a un alto medioevo fantastico.

La distanza volutamente artificiale che Moshfegh accumula intorno alla propria narrazione serve anche da specchio riflettente per un’altra caratteristica peculiare della sua scrittura: la si potrebbe definire una sorta di metafora oscura. Ogni volta che la narrazione si fa dinamica, focalizzata sull’azione più che sulla riflessione, si ha l’impressione di stare assistendo a una parabola, alla costruzione di un episodio mitico in tempo reale. Gli avvenimenti hanno il sapore di un racconto biblico, anche perché ne condividono una certa fredda crudeltà, ed esattamente come un racconto dell’Antico testamento sono pervasi di sangue e sofferenza, che siano figurati oppure concreti. I personaggi di Moshfegh hanno una vita interiore ricchissima, ma agiscono seguendo pochi stimoli: il sacrificio, la cannibalizzazione dei bisogni e dei desideri, uno strano istinto di sopravvivenza che più che all’autoconservazione li porta all’eliminazione del prossimo.

La tristezza di cui si parlava all’inizio è una parte integrante degli universi costruiti da Moshfegh. Sarebbe sbagliato dire semplicemente che è il motore narrativo da cui partono tutte le azioni delle sue protagoniste e protagonisti; la tristezza è pervasiva, impregnante. Le azioni partono dalla frustrazione: la narratrice senza nome del Mio anno di riposo e oblio, i personaggi iperreligiosi e sessualmente frustrati di Lapvona, l’anziana vedova di La morte in mano, la protagonista di Eileen – una fortissima frustrazione che si attorciglia su se stessa fino a costruire un bolo di energia potenziale che, come una bomba a orologeria, si accontenterà di dare fastidio solo fino a un certo punto, prima di esplodere; che rende le protagoniste estranee a se stesse, incapaci di ritrovarsi.

Mi avvicinai allo specchio e guardai attentamente. Eccomi, un minuscolo riflesso scuro di me stessa nel profondo della mia pupilla destra. Qualcuno una volta aveva detto che le pupille erano solo spazio vuoto, buchi neri, caverne gemelle di nulla infinito. “Quando qualcosa scompare, è lì che di solito scompare – nei buchi neri dei nostri occhi”. Non ricordavo chi l’avesse detto. Guardai il mio riflesso scomparire nel vapore.2

Certo è che Ottessa Moshfegh, sebbene vicina per età e background culturale ad alcune autrici americane che raccolgono un simile successo di pubblico e che come lei sfiorano le suggestioni del new weird (Hanya Yanagihara, Mona Awad, Carmen Maria Machado), si differenzia da loro per diversi aspetti. Il primo è una certa qualità imprevista, che fa in modo che i suoi racconti seguano sempre una strada impossibile da prevedere: in Ottessa Moshfegh l’amarezza permea le pagine solo per lasciare improvvisamente spazio a una tenerezza di provenienza incerta, o al contrario i pochi istanti di emozione positiva vengono bruscamente spezzati dal taglio di una lama sconosciuta.

Il secondo è senza dubbio un intellettualismo che non si prende sul serio: un procedere volutamente per luoghi comuni, per emozioni così portate al parossismo che a volte ci si perde nell’ironia tragica, e altre ci si ritrova immobilizzati contro una lastra di logica ghiacciata. Quello che differenzia Moshfegh, forse un po’ semplicisticamente, è il suo rifiuto delle mezze misure.

Ottessa Moshfegh piace, allora, non perché come Rooney riesce a cogliere l’intimità elitaria di una fascia della popolazione, o perché come Dolan la galvanizza, ma perché descrive con amorevole e morbosa dovizia di particolari tutte quelle suggestioni che spesso non ci concediamo nemmeno di far diventare pensieri. Non mostra, evoca direttamente: e l’evocazione ha un potere straordinario, che si teme sempre essere reiterativo, e insieme un fascino perverso. A inquietarci di questa autrice, forse, è il modo in cui la paura e l’inquietudine restano ad aleggiare come nebbia, anche ben dopo che si è cercato di guardarle in faccia.

Emma Cori

1 Ottessa Moshfegh, Il mio anno di riposo e oblio, Milano, Feltrinelli, 2019, cit. p. 87.
2 Ivi, cit. p. 152.

I libri di Ottessa Moshfegh usciti in Italia sono:
Eileen, Milano, Mondadori, 2017
Nostalgia di un altro pianeta, Milano, Feltrinelli, 2018
Il mio anno di riposo e oblio, Milano, Feltrinelli, 2019
La morte in mano, Milano, Feltrinelli, 2020
Lapvona, Milano, Feltrinelli 2023

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