Inventario di quel che resta: intervista a Michele Ruol

Lasagna è una rubrica aperiodica, curata da Mattia Grigolo.
Racconta libri fuori dalle righe. Alle autrici e agli autori viene chiesto di rispondere a delle parole come se fossero delle domande, per libere associazioni. Il perché la rubrica si chiami Lasagna non è importante, è una parola come un’altra. Una libera associazione, per l’appunto.

Conosco la sostanza di cui è pregno il libro d’esordio di Michele Ruol. Lo so e per questo mi fa paura. Temo che mi possa rompere in due, ma sono anche curioso, perché conosco bene anche Giovanni Turi e il lavoro che ha fatto e fa con Terrarossa. Ci sono passato anch’io e ho solo che da ringraziarlo. Quindi sono lì che mi chiedo quanto mi farà male questo libro. Mi è capitata la stessa cosa con Climax, film di Gaspar Noé. Mi avevano detto che era un film duro, ma di Noé ho visto tutto e ci ho fatto l’abitudine. Mi avevano, però, anche detto che c’è una scena con un bambino. Una scena dura. Con un bambino.

Allora ho fatto fatica, ho rimandato, anche quando mi sono deciso a guardarlo, ho tenuto il telecomando in mano, il dito a contatto con il tasto pausa, pronto. Come un grilletto che avrebbe fatto saltare in aria la TV nel momento in cui sarebbe stato troppo. Ma non l’ho fatto.

Da quando sono padre è dura, per me, assimilare certe cose, ma sono un curioso e sono uno che ci ha sempre sbattuto la testa. Alla fine Climax l’ho visto, quella scena anche. Ho messo pausa, la prima volta. Ho spento e ci sono tornato il giorno dopo. L’ho ripreso e l’ho vista.
Quindi, quanto avrei potuto resistere a non leggere Inventario di ciò che resta quando la foresta brucia”, quando sapevo di volerlo fare?

L’ho letto.

È un libro che mi ha divorato, nel vero senso della parola: mi ha morso, masticato, ingoiato. Ma è un libro incredibile. Costruendo micronarrazioni a inventario, Ruol riesce a trascinarti in un abisso di immagini nitide, perfette, che non lasciano scampo. Una scrittura nuova, finalmente. Alla fine, l’ho chiuso e ho pianto. Perché dovevo farlo, per esorcizzare, per tenermi strette le mie cose e, perché, in un modo che solo la narrativa riesce a darmi, aspettavo di rinascere.

Poi ho scritto a Michele e Giovanni. Gli ho detto che mi sarebbe piaciuto preparare una Lasagna. Ho aspettato gli ingredienti e quando mi sono messo a leggere, uno strato dopo l’altro, cosa nasconde questo meraviglioso Inventario, mi sono detto che sarebbe stata squisita. Lo è.

Eccola.

INVENTARIO
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è a tutti gli effetti quello che il titolo suggerisce: un elenco di novantanove oggetti, attraverso i quali ho cercato di ricostruire la storia di Madre, Padre, Maggiore e Minore.
La scelta di partire da questi esseri inanimati da una parte era legata al bisogno di mettere una distanza minima tra le fiamme della loro storia e la narrazione. Dall’altra mi interessava utilizzare gli oggetti come filtri per indagare la storia di questa famiglia, in modo analogo a un archeologo che, attraverso vasi, monete e monili, ricostruisce la cultura di una civiltà perduta. Gli oggetti sono in gran parte destinati a sopravviverci, ma non sono senza vita: a me interessava raccontare i brandelli di carne che rimangono loro attaccati.

FAMIGLIA
E di cos’altro dovremmo parlare? ti rispondo, parafrasando Richard Yates. Per me la famiglia è l’unità minima, il grado zero delle relazioni, e le dinamiche che mettiamo in atto lì sono le stesse che ritroviamo quando aggreghiamo le famiglie in condomini, e poi città nazioni continenti: parlare di famiglia non è un modo per chiudersi al mondo esterno, ma per capire come funzionano i suoi ingranaggi. Perché è questo il posto in cui siamo noi stessi fino in fondo, con le nostre miserie, i nostri segreti, le nostre debolezze, le nostre gioie inconfessabili. Raccontare la famiglia per me è raccontare l’intimità, la fragilità, la speranza: è il brodo primordiale da cui tutto prende forma.

SILENZIO
Quando ero studente per gioco avevo scritto un catalogo dei silenzi: erano una cinquantina di pagine stampate a casa e rilegate alla buona con una spillatrice. Ogni capitolo aveva un titolo che descriveva un silenzio specifico. C’erano silenzi di attesa, di gioia, di contemplazione, di rabbia, di dubbio. Anche Inventario appoggia le sue fondamenta sul silenzio – e il silenzio ne occupa fisicamente le pagine con ampi spazi bianchi. È un silenzio duro e concreto, che come un muro un po’ alla volta isola i protagonisti, ognuno nel loro personale dolore. Il cammino che intraprendono è proprio questo: tentare di abbattere quel silenzio ingombrante e denso, cercare le parole, e attraverso quelle, ritrovarsi.

DOLORE
Il dolore è un buco nero che ci inghiotte e finisce per occupare la nostra vita, le nostre parole, le nostre relazioni. È questo il punto più subdolo: che nel dolore, in quello più devastante, ci troviamo soli, incapaci di comunicare anche con le persone che amiamo, e destinati a non essere capiti. Tutto Inventario ruota intorno a questa parola, e ci orbita in forma di domanda: come si sopravvive al dolore? Il percorso che compiono Madre e Padre è la ricerca di questa risposta.

PRIMA – DOPO
«Nella storia di Madre e di Padre ci sono degli avvenimenti che determinano un prima e un dopo» recita la quarta di copertina. Ed è così che in effetti Madre e Padre ripercorrono la loro vita – così che anche noi siamo abituati a interpretare la nostra.
Prima e dopo sono artifici letterari che applichiamo per dare un senso – inteso come significato, ma anche come direzione – alle nostre esistenze. Scegliamo come spartiacque una malattia, una nascita, un trasferimento, un lutto, un incontro. Sono eventi chiari, intorno ai quali è facile appoggiare la narrazione della nostra vita, sui quali possiamo focalizzarci prima di cambiare capitolo. Raccontare, e raccontarci, la vita come fosse una storia è un modo per cercare di fare luce in quella matassa che sta tra il prologo e l’epilogo.

DESTINO – MORTE
La morte sta nell’incipit, nella prima riga: è il grande spartiacque, appunto, nella vita di Madre e Padre. La parola destino però compare ancora prima, nella breve nota che chiarisce che si tratta di un’opera di fantasia: «Considerate le risonanze con avvenimenti reali come segni del caso o del destino, a seconda di come preferite interpretare lo scorrere della vita». Destino o caso sono modi opposti per affrontare l’esistenza: Madre e Padre si affidano prima all’uno, poi all’altro, li cercano e li rifuggono, si contraddicono – come noi, in perenne equilibrio tra la ricerca di un senso e la frustrazione di non trovarlo.

MICRONARRAZIONE
C’è chi ha il fisico per i cento metri e chi per la maratona. Così scrivendo, è una questione di passo: c’è chi trova più naturale dare forma ai pensieri all’interno di racconti, e chi in romanzi da migliaia di pagine. Io credo di rientrare nel primo gruppo: ho cominciato immaginando racconti, e quando ho scritto un romanzo ne è venuto fuori un romanzo frammentario, fatto di novantanove capitoli brevi, brevissimi, micronarrazioni appunto.

Credo sia una questione di respiro della scrittura, e di come ci sincronizziamo con il respiro del mondo. Inspiro, espiro. Sono atti brevi, dentro l’aria, fuori l’aria – sono narrazioni minime. Così funziona per me: la memoria, i ricordi, sono schegge. Anche il futuro, scuro e inesplorabile, se non attraverso brevi lampi, intuizioni, epifanie guidate dall’immaginazione. Certo, si può provare a tenere tutto insieme: scrivere un romanzo vuol dire fare esattamente questo tentativo. Immaginare un collegamento, costruire una narrazione che tenga insieme tutti i pezzi, che dia un senso al prima e al dopo. A me però affascina la tecnica giapponese del kintsugi, dove le linee di frattura non vengono nascoste ma valorizzate con inserti d’oro. Siamo esseri fragili e spesso rotti, perché nascondersi?

FRATELLANZA
È uno dei misteri che mi affascina: fratelli, cresciuti con gli stessi genitori, con le stesse dinamiche familiari, nello stesso contesto socioculturale, che finiscono per diventare persone completamente diverse, spesso con caratteri opposti. E allo stesso tempo, in questa diversità abissale, e spesso anche conflittuale, si crea un legame fatto soprattutto di non detto, di telepatia e nostalgia, un’intesa che non si può spiegare se non con il fatto di essere sopravvissuti alle stesse battaglie.

ALBERO
Alberi in questo libro ce ne sono tantissimi, a partire dal titolo, dalla foresta che brucia sullo sfondo delle vicende raccontate. Ci sono i corbezzoli, piante tenaci, capaci di sopravvivere alle fiamme, e di cui Madre si prende cura, crescendoli in terrazza. C’è poi un albero quasi magico, un banano: un albero enorme che affonda le radici nell’appartamento abbandonato e con i suoi rami lentamente si prende spazio, ripopolando la casa vuota. Un albero inarrestabile, che svetta nella camera matrimoniale, portando una linfa nuova, facendosi manifesto del cambiamento: un albero che è anche un segreto che non conosce nessuno, come il talamo nuziale di Penelope e Odisseo.

SOPRAVVIVENZA
Madre e Padre, se avessero potuto, avrebbero fermato il tempo, avrebbero impiegato il tempo che restava per rivivere sempre gli stessi anni insieme ai ragazzi, in loop. Ma sopravvivere a una tragedia vuol dire trovarsi sbalzati in avanti, in un punto del futuro in cui non avremmo mai pensato di poterci trovare. Se vivere richiede di fare progetti, di immaginare un futuro, sopravvivere vuol dire trovarsi in un punto imprecisato dell’esistenza, senza sapere come ci si è arrivati, né come proseguire. Per Madre e Padre è difficile pensare ai giorni che verranno, molto più facile lasciarsi travolgere da questi. È per questo che ho deciso di accompagnarli con la narrazione per quasi vent’anni dopo la tragedia: per lasciar loro tempo e modo di tornare lentamente a vivere; di ritrovarsi, prima singolarmente e poi come coppia; di imparare nuovamente a declinare i verbi al futuro.

Michele Ruol, di professione medico anestesista, scrive per il teatro e ha pubblicato racconti sulle riviste letterarie «Inutile» ed «Effe – Periodico di Altre Narratività», oltre che in raccolte a più voci, come L’amore ai tempi dell’apocalisse (Galaad), a cura di Paolo Zardi, e Il Veneto del futuro (Marsilio), a cura di Alessandro Zangrando. Il testo Betulla, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano per il podcast Abbecedario per il mondo nuovo, è stato pubblicato nel libro omonimo edito da Il Saggiatore. Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è il suo esordio come autore di narrativa.

Mattia Grigolo ha fondato la rivista letteraria Eterna, il magazine di approfondimento Yanez e l’hub creativo, con sede a Berlino, Le Balene Possono Volare. Ha esordito con il romanzo breve La raggia (Pidgin, 2022). Ha pubblicato la raccolta di racconti Temevo dicessi l’amore (Terrarossa Edizioni, 2023).

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