Restiamo così quando ve ne andate, Cristò
(Terrarossa, 2017)
«Invano il mondo è vario», ci redarguisce un verso della poesia La Pantera di Borges: la giornata da vivere è stata per sempre già fissata per l’animale che vive dietro le sbarre di una gabbia. Allo stesso modo, con un’analogia figlia di una semplice prossimità di letture (ma forse per questo meno valida?) Francesco, il protagonista di Restiamo così quando ve ne andate (Cristò, 2017, Terrarossa Edizioni), vive una giornata già fissata, sempre uguale a se stessa.
Francesco ha quarantadue anni, lavora di malavoglia in un supermercato perché il padre, oltre a parte del suo patrimonio genetico, gli ha tramandato anche la professione; trascorre il tempo libero approfittando dell’amore di Monica, fumando hashish, nel tentativo consapevolmente disperato di dilatare il tempo a sua disposizione, e lasciandosi mangiare con placidità dai rimorsi per aver abbandonato la sua passione per il pianoforte (convenientemente situato nella stanza della casa soprannominata “la stanza dei rimorsi”).
La situazione di Francesco viene fotografata attraverso un ribaltamento della narrazione lavorativa nepotistica, da un tanto umile (ma finto) rifiuto dello sfruttamento di conoscenze personali ai fini del lavoro agognato, a una accettazione masochista e nuda della corsia preferenziale per un lavoro che si odia ma di cui c’è necessità per sopravvivere; ma tra la sopravvivenza e la vita c’è una distanza, esattamente quella che dal salotto di casa, la stanza delle esperienze estatiche e ipnotiche, conduce alla stanza dei rimorsi:
«Io dovrei lasciar perdere lei [Monica] e il lavoro e mettermi a suonare per davvero, lasciare che la luce cambi nella stanza del rimorso e che diventi buio senza smettere mai di suonare. Far vibrare tutto a partire dalle mie dita: le corde, il pianoforte, la stanza, il muro.»
Cristò cede a un cliché letterario, l’evento traumatico, per dare realmente avvio alla storia: un grave incidente di Donatello, collega e amico di Francesco, lo convince a ribellarsi allo stallo messicano che è diventata la sua vita. La trama quasi circolare, però, permette a Cristò di schivare le conseguenze del cliché, smussando l’importanza che l’evento traumatico svolge nell’avvio della trama, soprattutto attraverso un’ironia che permette alla narrazione di avvicinarsi alla quarta parete, senza mai sfondarla:
«Se ancora credessi che qualcuno stia scrivendo la mia storia, beh, adesso potrebbe scegliere tra diversi finali. Finale numero uno […] deludente […] finale numero due […] scontato, inutilmente drammatico.»
Cinque sono i finali che Francesco scarta per la sua vita, in un’interferenza (ipotetica) tra autore e personaggio che ha dei precedenti illustri, come Niebla di Miguel de Unamuno, o Abitare il vento di Sebastiano Vassalli. Sfido chiunque a non averne pensato neanche uno, nel corso della lettura. E questo “mettere le mani avanti” chiudendo preventivamente alcune vie di fuga della trama riaccende la curiosità del lettore, che nella seconda metà della narrazione si sente sempre più coinvolto, grazie anche alla scrittura di Cristò che, proprio come Francesco, sembra iniziare una lotta celeste e furibonda contro le proprie catene: le riflessioni si fanno più incisive, le analogie più arrischiate. Fino al “vero” finale, quello scelto come quarta sezione da incastonare in cima alla narrazione e che in qualche modo la rende circolare: vero e proprio anello letterario e che, come ogni finale che si rispetti, provoca all’arrivo dell’ultimo punto fermo un subitaneo afflusso di aria nei polmoni, causato dal respiro incerto a cui le ultime pagine hanno costretto il lettore.
Non facciamo però della bestia in gabbia un modello: proviamo a pensare che Francesco condivida la forma della pantera di Borges, ma non la sostanza archetipica. Per essere più chiari, non appelliamoci a Restiamo così quando ve ne andate come a un romanzo generazionale. Questa è una di quelle formule apotropaiche, utili forse per scacciare temporaneamente l’angoscia di essere unici al mondo con la consapevolezza di essere simili. La politica è forse il luogo dove valorizzare le nostre caratteristiche comuni di esseri umani. Inutile, qui, cercare lezioni:
«Questa è una vita qualsiasi in una casa qualsiasi. Non fa bene e non fa male; questi fatti non sono buoni né cattivi. Qui le cose succedono e non c’è niente da fare.»
Il compito della letteratura, invece, come scrive Witold Gombrowicz, è rappresentare le migliaia e migliaia di vite qualsiasi, di mondi immaginati da migliaia di teste: ogni oggetto è sempre migliaia di volte1. Non è un caso, forse, che lo scrittore polacco proprio non sopportasse Borges. Il pericolo di pensare che Francesco sia come tutti i quarantenni frustrati è quello di trarre l’universale, la lezione, e quindi diluire la propria angoscia nella distensione di una condizione generale, disinnescandola. Non dite che Francesco è come tutti i quarantenni. Dite che Francesco siete voi, ma solo voi stessi, anche se non avete quarant’anni, non permettete a nessuno di ripulire la vostra angoscia con la varechina del “romanzo generazionale”, che vi monda al prezzo di perdere il vostro colore. Persino Francesco ha questa tentazione, nel momento di massima tensione tra la sua vita com’è e ciò come vorrebbe che fosse:
«Non è pulito il cibo che mangio, non è pulito il sesso che faccio, non sono puliti i miei polmoni, non è pulita la musica che suono, non sono pulite le soluzioni che riesco a immaginare. Dovrei fare un bagno nella varechina e appendermi sui fili di ferro a far sgocciolare la sporcizia.»
Eppure, quando la sua Composizione vedrà la luce, nel momento di massimo fulgore, tutta l’angoscia, tutto ciò che è sporco, reietto, tutto ciò che c’è di davvero suo, si prenderà la scena:
«Il pianoforte l’ho suonato io, proseguo (“da solo, dopo aver fumato un pezzettino di hashish che mi aveva lasciato Fatima. L’ho suonato con le cuffie sulle orecchie che mandavano a loop le quattro note di violoncello, perché lei non sentisse dalla sua camera, perché non potesse collegare la disperazione di quegli accordi e di quella melodia alle uniche quattro note che sa suonare”, vorrei dire, ma non lo dico.»
Nessuno di noi è una generazione. Le generazioni non esistono. Esistiamo noi, le nostre angosce, le nostre disperazioni e qualcuno (o qualcosa) che prova a raccontarle fin quando esistono e che, quando non esistono più, quando se ne vanno, semplicemente rimane così. Aspettando in silenzio l’arrivo di nuove disperazioni, perché senza non c’è nulla da raccontare.
Stefano Vernamonti
- Devo ringraziare la newsletter della rivista Pangea per avermi fatto scoprire questo pezzo straordinario di Gombrowicz. ↩︎

