Quattro chiacchiere con Omar di Monopoli, l’ultima novità Adelphi

Intervista esclusiva a Omar di Monopoli: il suo ultimo romanzo, Nella perfida terra di Dio (Adelphi), è uscito ieri in tutte le librerie. Ne abbiamo parlato con lui qualche giorno fa.
‘Per le sue storie sono state create inedite categorie critiche: si è parlato di western pugliese, di verismo immaginifico, di neorealismo in versione splatter. Nonché, com’è ovvio, di noir mediterraneo.’ Faulkner la sua fonte maggiore di ispirazione. Un romanzo che sta attirando già l’attenzione della critica.

Nella perfida terra di Dio, dice il titolo (gran bel titolo, aggiungo). Ma qual è questa perfida terra?

Ha a che vedere con la superstizione popolare, che permea tanto il romanzo tanto quanto l’intera mia regione (basti pensare alle miriadi di processioni religiose – ogni paesino ne ha una tutta sua – che non di rado sono costellate di riferimenti folcloristici al limite del paganesimo) e poi volevo richiamare un certo afflato biblico, lo stesso che anima la letteratura sulla quale mi sono formato e che vede nei grandi maestri del sud degli Stati Uniti i suoi capostipiti (è il cosiddetto Southern Gothic: un filone «sudista» da cui traspare una prospettiva particolarmente cruenta e appassionata del mondo). Infine, è ovvio che la landa “perfida” cui faccio riferimento nel titolo è, oltre che la mia Puglia, per estensione anche l’intera terra degli uomini: un posto meraviglioso in cui succedono di continuo cose orribili.

Che rapporto hai con la tua terra? E quanto questo rapporto interviene ad agire sulla tua scrittura?

È un rapporto simbiotico, un po’ perverso forse, straripante di quella commistione di odio e tenerezza che è tipica dei grandi amori. Ho scoperto le mie radici mentre studiavo fuori, in quella che, con una definizione d’altri tempi, chiameremmo “l’altitalia”. Me ne stavo a Bologna all’università a fare l’artistoide alternativo e improvvisamente un bel giorno ebbi chiaro quanto il mare, la terra rossa e i cespugli di mirto non avrebbero mai smesso di essere parte di me. E non è un caso che solo una volta tornato in pianta stabile al sud, nella terra delle mie radici, sia riuscito a mettere a fuoco una lingua narrativa personale, una “voce” letteraria che, credo, abbia finito nel bene e nel male per definirmi come autore.

I tuoi romanzi, definiti gotico-meridionali, sono di genere, hanno una atmosfera western, eppure sono molto ancorati a fatti o situazioni reali: dalla Sacra Corona Unita allo sfruttamento nei campi di Capitanata. Con il tuo ultimo romanzo cosa hai voluto raccontare?

Non scrivo romanzi a tesi, né credo di aver mai bene in testa cosa voglio esattamente raccontare quando mi accingo a iniziare un libro: attingo a un serbatoio di storie che ronzano nell’aria, codifico suggestioni e cerco di definire delle ambientazioni che siano consone alla mia cifra espressiva. Ma niente di tutto ciò sarebbe possibile se non avessi una perfetta conoscenza dei luoghi che descrivo, e se non avessi “processato” in maniera autoriale decenni di osservazione quasi antropologica del posto in cui vivo. Malaffare, Sacra corona unita e fanatismo religioso sono argomenti che conosco bene perché hanno tegumentato il meridione in cui sono cresciuto, e quindi tutto ciò è inesorabilmente finito nelle mie pagine. Poi, sia chiaro: uno scrittore deve sforzarsi di “universalizzare” al massimo il proprio lavoro, per cui cerco di raccontare la mia provincia dimenticata da Dio immettendovi coordinate esistenziali in cui mi auguro possano riconoscersi in qualsiasi “sud”: dall’Alabama al Karnataka.

Da dov’è partita l’idea? C’è un filo rosso che lega effettivamente questo romanzo ai tuoi precedenti?

Certamente. Poiché come dichiaro senza remore (e come da generazioni fanno frotte di scrittori) ho saccheggiato dal sommo William Faulkner l’idea di una contea immaginaria in cui storie e personaggi si incrociano e si fondono in libri diversi, così anche la mia Puglia è un accrocco di paesi fittizi in cui accadono cose e s’incontrano persone che magari s’influenzano senza averne contezza. Per cui che si tratti di un noir ambientato nel Gargano o di un western che si srotola nel Salento più fondo è tutto parte di una sorta di grande disegno che ho approntato anni fa, un disegno del quale, sia chiaro, non conosco i contorni esatti e anzi, libro dopo libro ne scopro io stesso il sempre più vasto grado di estensione.

Al di là di ogni genere letterario, di trame e di stili e di tutto ciò che emerge sul proscenio visibile dei tuoi romanzi, cosa c’è invece nel retropalco, di velato e abissale, che caratterizza la tua concezione di letteratura e il tuo bisogno intimo e interiore di raccontare?

coverQueste sono domande che attengono forse più alla psicanalisi che allo specifico romanzesco. Ti dico solo che ho cominciato a scrivere un bel po’ di anni fa, all’epoca credevo di essere un fumettista e sceneggiavo da me storielle d’impronta “pazienzesca” che poi diffondevo in fotocopia nell’ateneo bolognese (luogo in cui, tra l’altro Pazienza regnò incontrastato generando decine di emuli falliti come me). Ma ho compreso ben presto che più che il disegno – nel quale ero bravino – era la narrazione a interessarmi. Così ho accantonato i pennelli per mettermi a vergare parole (pensando inoltre erroneamente fosse meno faticoso di tutto quel tratteggiare con la china, invece allestire un’architettura narrativa plausibile è un lavoro colossale, qualcosa che mette a dura prova la propria sanità mentale). E comunque una certa impronta “visiva”, cinematografica o fumettistica mi è rimasta incollata addosso. Le mie sono storie molto descritte più che sentite, i miei personaggi ruggiscono, scopano, bestemmiano e vanno a capo chino contro il loro destino infame, ma raramente il lettore ne scopre i moti dell’animo attraverso un’analisi introspettiva. Per lo meno, non sono io autore a fornirgliela: sta a chi legge farsi un’idea del personaggio tramite ciò che gli faccio fare.

All’attivo hai la pubblicazione di tre romanzi e una raccolta di racconti con ISBN edizioni. Ora pubblicare con Adelphi, una casa editrice parca nel pubblicare romanzieri italiani contemporanei e solo a patto che siano di un alto livello, rappresenta indubbiamente un salto di qualità non indifferente e un vero e proprio prestigio riservato a pochi. Ci racconti com’è avvenuto? Immagino sia stato molto emozionante.

Sì, ovviamente è un salto quantico. Ma solo all’apparenza, se posso permettermi una precisazione che saprà di presuntuoso. La verità è che la ISBN, la prima ISBN, era nelle intenzioni dei fondatori una sorta di Adelphi in sedicesimo, una casa editrice insomma con un catalogo curato e vivo, con una sua precipua identità anche grafica oltre che filosofica (solo decisamente più pop rispetto alla monumentale casa in cui adesso ho l’onore di essere ospite). Poi le cose sono andate a ramengo ma è inutile stare a riparlarne: io so solo che probabilmente non sarei mai entrato nello studio di Calasso se prima non avessi incontrato l’entusiasmo di Papi, Coppola e Formenton in ISBN, coi quali sono cresciuto come autore. Il resto è cronaca, anche giudiziaria, e credo sull’argomento si sia detto abbastanza…

Ma concedimi una curiosità.  Come sei arrivato a pubblicare il tuo primo romanzo?

 Il mio primo romanzo l’ho pubblicato nella maniera più ortodossa ovvero inviando il classico manoscritto in giro (era il 2006 e non c’erano i social, e francamente pure le mail non è che fossero chissà quanto popolari). Dopo circa un decennio di rifiuti improvvisamente «Uomini e cani» ebbe una serie importante di offerte. Questo perché evidentemente tutti i NO precedenti erano stati utili a capire quale errori non fare: è una sorta di selezione naturale: se dopo tanti dinieghi non smetti di provarci, significa che forse la stoffa c’è.

Concludo con una domanda-riflessione. La Puglia è l’unica regione del meridione che ha sofferto a lungo la mancanza di una propria letteratura: irraggiungibile la florida tradizione siciliana e napoletana, priva anche dei suoi Alvaro o Scotellaro, dei Levi d’adozione, ha saputo splendere solo sporadicamente, come nella purtroppo esigua opera di Tommaso Fiore o in alcuni lavori di Carmelo Bene. Eppure oggi si vive quello che in molti hanno definito un Rinascimento pugliese. Gli scrittori pugliesi sono sempre più alla ribalta: dagli ormai indiscussi Lagioia, Desiati, Carofiglio, De Cataldo, Carrisi fino a Marco Ferrante, Andrea Piva e ai più giovani Funetta (rivelazione allo Strega 2016), Introna (Mondadori 2016), e tantissimi altri. Con la pubblicazione per Adelphi, adesso anche la tua consacrazione. Come ti spieghi questo “prima” e questo “ora” per la Puglia letteraria?

La mia opinione è che la Puglia, esattamente come la Sardegna (altra regione dalla quale provengono da un decennio a questa parte pattuglie assai cazzute di nuovi narratori), sia un luogo molto “pimpato” dal punto di vista turistico ma che sotto la patina del divertimento tutto pizzica e taralli nasconda un coacervo di problemi che sono ancora retaggio della mai risolta questione meridionale: un divario che le brochure promozionali hanno ammansito, lisciato e financo edulcorato, ma che noi che quaggiù respiriamo i miasmi dell’Ilva e quelli della centrale di Cerano, noi che quaggiù combattiamo con le frange residuali di una criminalità sconfitta solo sulla carta (la SCU), ebbene noi quel divario lo conosciamo perfettamente, e l’arte (che sia cinema, scrittura, musica o pittura) s’infila sempre a colmare i vuoti informativi, per cui io lo dico sempre a chi mi chiede come fare a conoscere per davvero la mia regione: guardate i monumenti, dico, assaporate il sapore del vino e rilassatevi al mare, ma poi fate uno sforzo e prendete in mano uno dei tanti libri o film di autori impegnati di queste parti per completare il quadro. Non è tutto oro, l’antico adagio serva da monito, quello che luccica.

– Giuseppe Rizzi –

Foto-Omar
Di Monopoli nasce nel 1971 a Bologna, ma è pugliese a tutti gli effetti. Ad oggi vive a Manduria

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