Definire l’altro significa sempre definire anche e contemporaneamente se stessi.
L’etnicità si può determinare oggettivamente o soggettivamente. Nel secondo caso, sono i membri di uno stesso gruppo sociale a identificarsi in associazione o contrapposizione rispetto ad altri gruppi, sulla base di criteri avvertiti come necessari – criteri che possono variare considerabilmente non solo sincronicamente tra diversi conglomerati etnici, ma anche diacronicamente entro i medesimi. Possibili discrimini sono parlare la stessa lingua o dialetti intercomprensibili, abitare una stessa terra, condividere costumi, tradizioni, culti, ordinamento politico e stile di vita, avere legami di sangue. Nel caso della Grecia antica, alquanto frammentata geograficamente e politicamente disomogenea, il discrimine principale fu da subito quello linguistico; da qui la risemantizzazione, tuttora viva, del termine ‘barbaro’ (βάρβᾰρος), parola di origine orientale, basata sulla duplicazione di una onomatopea indicante il suono di una lingua incomprensibile ad orecchie greche.
Dunque, il ‘barbaro’ da essere “chi non parla la lingua greca” a un certo punto diventa, indistintamente, “chiunque non sia greco”; una demarcazione forte che crea una barriera netta non semplicemente fra il greco e l’una o l’altra tribù confinante specifica, ma tra tutti i greci e tutti gli altri. Val la pena soffermarsi su alcuni punti. Quando si sarebbe verificata tale risemantizzazione? Quali circostanze avrebbero suscitato nelle genti greche il bisogno di distinguersi da tutto il resto del mondo? Cosa c’entra Eschilo?
Nelle fonti testuali rimasteci, precedentemente al V secolo a.C. il termine ‘barbaros’ si ritrova impiegato solamente nell’originario significato legato alla sfera linguistica; rientra in questa casistica la sua unica occorrenza, in forma di composto (barbarophonos, letteralmente “dal suono barbaro”), nei poemi omerici. Le accezioni etniche emergono, invece, per la prima volta, nel testo dei Persiani, che messo in scena nel 472 a.C. è ad oggi il più antico dramma pervenutoci per intero. Un dramma fondamentale, atipico da un punto di vista strutturale e tematico rispetto al, pur scarno, corpus tragico di cui disponiamo; di argomento storico e non mitologico, privo di prologo, ancora più parlato che agito, pochissimo dinamico, memore di una fase più arcaica. Differito nel tempo e nello spazio: tutti i personaggi che si alternano sulla scena discutono di uno stesso evento – già avvenuto in un altrove geograficamente lontano –, del quale possiedono gradi di conoscenza diversi.
Un dramma atipico anche perché porta sulla scena, in un teatro greco, davanti a un pubblico greco, e tramite attori greci, la tragedia ancora fresca del nemico per eccellenza, appena sconfitto dopo una sanguinosa serie di battaglie e un elevatissimo numero di perdite per ambo gli schieramenti; e lo fa senza abbandonarsi a facili manifestazioni di tripudio. Senza toccare l’estremo opposto di un “patetismo esterofilo”, né nulla togliere al valore militare delle genti greche, Eschilo nei suoi versi sottolinea il ruolo che ha svolto negli eventi il ‘daimon’, ‘dio’, dei Persiani, adiratosi col Re dei Re Serse a causa della sua mancanza di ogni senso della misura.
«ἀλλ’, ὅταν σπεύδῃ τις αὐτός, χὠ θεὸς συνάπτεται» (v. 742)
“Ma certo, quando uno si dà da fare, anche il dio gli dà una mano”
Con i suoi Persiani, Eschilo inventa i barbari. Con questo s’intende che, per la prima volta nel dramma preso in esame, un insieme di temi e gruppi lessicali vengono associati in massa alla categoria del barbaro ‘etnico’. Si tratta di una associazione che per varie ragioni, legate principalmente a motivi propagandistici, sarebbe poi divenuta paradigmatica, ripresa e approfondita, fissata in puro stereotipo. Dall’oro e l’amore per lo sfarzo al lusso negli arredi e nelle vesti; dallo stile di vita molle e raffinato alla codardia nel combattimento ‘da lontano’, condotto con archi e frecce anziché nel corpo a corpo ravvicinato; dall’arrendevolezza e una venerazione nei confronti di un sovrano assoluto che è quasi un dio in terra alle sovversive avvisaglie di un potere femminile.
Come si scriveva in apertura, ogni atto di definizione di un altro è contemporaneamente definizione del sé; e se si affermarono i quattro pilastri del valore, della moderazione, della saggezza e della giustizia come ideali greci, di essi gli altri dovevano necessariamente provarsi la negazione: vili, smodati, stolti (o al contrario, dall’ingegno perverso impiegato a fini meschini) e ingiusti. In questa tragedia, Eschilo non parla ai Greci dei barbari; parla ai Greci di se stessi. Indizi di questa sostanziale identità latente si riscontrano nei luoghi del testo drammatico in cui si allude a una parentela originaria tra le due genti (il sogno della regina nel primo episodio; l’attributo “nato dall’oro” al verso 79, che rimanda al mito greco di Danae e a suo figlio Perseo).
Per definire l’altro, i Greci del V secolo dovevano avere una certa idea di sé. È ragionevole pensare che ad aver spinto un gruppo così eterogeneo a un più spiccato senso di identità sia stata una circostanza nuova, nella forma di una imponente minaccia dall’esterno: le spedizioni persiane di Dario e poi Serse. La necessità di reagire in modo unitario per garantirsi la sopravvivenza comporta anzitutto il bisogno di potersi percepire e definire come unità: termini come Hellenes e Panhellenes, sebbene già impiegati in età arcaica per indicare gli “abitanti di tutta la Grecia”, prevalsero sugli etnonimi indicanti l’appartenenza alla singola polis o regione soltanto a partire dall’età delle guerre persiane.
In seguito, fu soprattutto nell’interesse della neonata Lega delio-attica mantenere vivo tale senso di appartenenza e identità pangreca; in particolare, questo fu sfruttato da una sempre più aggressiva propaganda imperialistica ateniese, che fece gradualmente convergere i concetti di ‘grecità’ e ‘ateniesità’, creando un malinteso ancora oggi non del tutto fugato: ciò spiega ad esempio l’enfasi posta, nella retorica barbarica, sul tema della democrazia (che non fu mai, tantomeno nel V secolo, tanto generalmente ‘greca’ quanto peculiarmente ‘ateniese’).
L’Altro è uno, nessuno e centomila. Vorrei concludere questo pezzo introducendo brevemente gli altri Altri della Grecia antica. Categorie distinte, ma per certi versi tutte riconducibili a una medesima, adatte a delineare la faccia esclusiva, maschile, elitaria, della stessa civiltà ateniese di cui tanto spesso noi europei ci definiamo orgogliosamente gli eredi: elementi da tenere presenti non per demonizzare il passato, ma per approcciarsi ad esso in modo critico e consapevole.
La civiltà greca antica appare incapace di concepire la differenza molteplice, ma pensa per opposizioni binarie rigide, con esiti talora sorprendenti o paradossali. Si possono individuare cinque opposizioni identitarie principali: greci/barbari, liberi/schiavi, cittadini/non cittadini, uomini/donne, mortali/dei. Si tratta di un tema ampio, impossibile da trattare in poche righe; sarà qui sufficiente lasciare alla riflessione del lettore l’individuazione dei possibili elementi in comune tra le prime quattro categorie di Altri presentate.
Alessia Angelini
Grazie
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