L’Ucraina in frammenti. La trilogia ideale di Serhij Žadan

Quando nel 2009 Serhij Žadan ha pubblicato l’edizione originale de La strada del Donbas, nei territori dell’Ucraina orientale non vi era ancora il sentore di quella guerra che sarebbe scoppiata da lì a pochi anni. La traduzione italiana proposta dalla Voland, frutto dell’attento lavoro di Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyč, risale invece al ben più travagliato 2016, uno dei periodi di maggiore tensione tra le forze separatiste filorusse e le milizie ucraine che si contendono proprio in quei territori il controllo militare e politico. Una decisione legata a un preciso progetto editoriale: La strada del Donbas è infatti il primo tassello di un mosaico che vuole cogliere l’essenza dell’Ucraina prima, all’inizio e durante il conflitto, attraverso la pubblicazione di tre romanzi scritti da uno dei più celebri e stimati autori delle terre del Donbas. Negli anni seguenti sono stati tradotti anche Mesopotamia (2018) e Il convitto (2020), con cui si conclude questa “trilogia ideale”, unitaria sul piano concettuale ma non da un punto di vista narrativo.

Serhij Žadan, poco conosciuto in Italia, è in realtà uno dei grandi vanti della letteratura ucraina contemporanea. Scrive prosa e poesia, ma è anche un cantautore, un saggista, un performer e un attivista politico. È originario della regione del Luhans’k, una delle zone più colpite dal conflitto, travagliata da forte spinte separatiste a favore della Russia di Putin. Da diversi anni, però, vive a Charkiv, la seconda città più grande dell’Ucraina, dove la maggioranza della popolazione parla il russo. Anche alla luce di questa considerazione, la decisione di Žadan di scrivere i suoi romanzi e le sue poesie in ucraino ha una forte dimensione ideologica, oltre che artistica. D’altro canto, si tratta di un autore molto attivo anche in ambito politico: nel 2014 la cronaca ha riportato per esempio la notizia di un suo brutale pestaggio quando, in mezzo alle file degli Euromaidan, è stato aggredito da un gruppo di protestanti filorussi per essersi rifiutato di inginocchiarsi e baciare la bandiera straniera. Negli anni ha organizzato molte iniziative umanitarie e culturali per supportare le zone più scosse dal conflitto, tornando personalmente nel Luhans’k.

Date queste premesse, potrebbe stranire ritrovarsi davanti a tre romanzi che non parlano né di politica né di ideologia. Il terzo libro è l’unico a trattare il tema della guerra, ma senza prese di posizione: non ci sono bandiere, non ci sono schieramenti, solo un “noi” e un “voi” astratto che potrebbe appartenere a qualsiasi conflitto, qualsiasi tempo. Più che ritratti dell’Ucraina contemporanea, sono storie universali su esseri umani imperfetti. Allora cosa le rende una “trilogia ideale”?

Innanzitutto, la loro forte dimensione territoriale. Già i titoli dei romanzi suggeriscono un rimando al dove le storie hanno luogo. La strada del Donbas, per cominciare, ci anticipa un viaggio nelle regioni dell’Ucraina Orientale, tra sterminati campi di granturco, panorami deserti e architetture sovietiche (ma anche rovine, campi nomadi, ferrovie fantasma). Il protagonista, Herman, vi si trasferisce dopo che il fratello fugge nella lontana Amsterdam lasciando in balia della sorte la sua stazione di servizio e gli amici che vi lavorano. Anche se il piano iniziale prevedeva di fermarsi solo il tempo di sistemare gli affari di lavoro, alla fine Herman non avrà mai la forza di tornarsene alla sua vita in città. Quei luoghi diventano parte di lui, lo ingabbiano e lo stregano finché rimanere non sarà l’unica scelta possibile. Il titolo originale del romanzo, per quanto improponibile ai lettori italiani, sarebbe ancora più significativo: Vorošylovhrad, ovvero il nome della città di Luhans’k prima della creazione dell’Ucraina indipendente nel 1991. Una realtà che non esiste più, quantomeno non con quel nome, che rimanda alla figura del generale sovietico Vorošylov. In questo modo, Žadan lega il suo romanzo alla terra dell’Ucraina Orientale, ma in una dimensione quasi allegorica.

Con Mesopotamia il rimando del titolo al luogo è più metaforico: il riferimento non è alla regione geografica, ma alla poliedricità dei suoi abitanti e alla sua centralità strategica. Il romanzo è infatti un insieme di racconti concatenati, dove vari personaggi si alternano nei ruoli di protagonisti e comparse, il cui unico collante è un quartiere della città di Charkiv, una “Mesopotamia” moderna chiusa tra due fiumi. Qui vivono persone di ogni etnia e di ogni religione, anime in pena o piene di speranza, proiettate al futuro o al passato, con le loro eccentriche personalità, le loro storie e i loro drammi. Il libro esce in Ucraina nel 2015, il conflitto è già in corso, ma in Mesopotamia si respira solo un’aria vagamente tesa, con pochi sporadici (oltre che ironici) riferimenti alla realtà politica e militare. Le storie parlano di amori idealizzati destinati al fallimento, rapporti sentimentali tra cugini, ex-pugili con atteggiamenti violenti, amici fedeli e mogli infedeli – in altre parole, di esseri umani e degli errori che commettono ogni giorno. In ogni caso, non di guerra.

Solo due anni dopo Žadan cambia registro pubblicando Il convitto. Il titolo ancora una volta rimanda a un luogo: un convitto, per l’appunto, l’istituto dove è stato rinchiuso il nipote del protagonista. Paša è un insegnante di lingua ucraina, convinto che basti chiudere gli occhi e ignorare tutti gli sconvolgimenti politici che lo circondano per essere al sicuro. Così, continua a procrastinare il momento in cui dovrà andare a recuperare il nipote richiuso nell’istituto, fino al giorno in cui il suo paese verrà messo a ferro e fuoco e lui si ritroverà coinvolto in un viaggio disperato per riportare a casa il tredicenne Saša.

Il convitto rimanda un’immagine tragica dell’Ucraina in guerra, dove ogni passo può far esplodere una mina, ogni movimento può attirare l’attenzione delle milizie armate, ogni parola di troppo può tradire un pensiero sbagliato. Bombe, fucilazioni, assalti, carri armati – non ci sono mezzi di trasporto, ma le persone fuggono comunque. Al tempo stesso, non viene mai esplicitato il luogo dove vivono o dove sono diretti i personaggi. I soldati combattono “con” o “contro” una forza ignota, le persone credono in ideali indefiniti: gli schieramenti ci sono e sono forti, ma sta al lettore intuirli da sé. Allo stesso modo, è possibile solo ipotizzare che l’avventura di Paša avvenga ancora una volta nel Luhans’k, proprio in virtù di questa ambiguità tipica della scrittura di Žadan: pur parlando sempre delle sue terre, alla fine le innalza a emblema di realtà universali.

I riferimenti all’Ucraina Orientale sono comunque solo uno dei tratti che accomunano i romanzi di questa trilogia ideale. Ancora più caratteristica è la struttura frammentata delle tre narrazioni, che permette a Žadan di mettere in gioco molti più personaggi di quelli che il lettore alla fine ricorderà di aver incontrato. Prendiamo il caso de La strada del Donbas: la trama di base è molto compatta, quasi statica, con un personaggio principale che ritorna nella città dove è nato per risolvere alcuni affari di lavoro e, in virtù degli incontri che fa e dei legami che crea, decide di rimanervi per sempre. Nonostante queste premesse, La strada del Donbas è il più surreale, articolato e complesso dei tre romanzi, con decine di personaggi che entrano ed escono dalla scena, situazioni improbabili che conducono a scelte ingiustificate, a loro volta causa di altre situazioni altrettanto imprevedibili. Non esiste un unico filo narrativo, perché il percorso seguito dal protagonista, Herman, non ha un fine né una motivazione. Ne deriva un romanzo a suo modo episodico, dove ogni situazione fa storia a sé, con molteplici trame sovrapponibili non sempre utili a tracciare un quadro complessivo coerente. Gli infiniti personaggi che riempiono le pagine sono inoltre caratterizzati da tratti grotteschi, senza che Herman si stupisca quasi mai dei loro atteggiamenti o del loro aspetto fisico. Per citare un esempio, il protagonista descrive in questi termini la squadra di calcio del quartiere:

«C’erano tutti. Saša Pitone con un occhio solo, Andrjucha Michael Jackson con le cupole a cipolla azzurre sul petto, e Semen Cazzo Nero con il morso all’orecchio e le dita ricucite alla mano destra, e Dymyč il Controllore con i tatuaggi sulle palpebre, i fratelli Balalaješnikov, in tre con un unico cellulare, e Kolja Una Gamba e Mezzo con la calvizie spruzzata di bianco e i baffetti alla Hitler, e Ivan Petrovič Produzione Foraggi con la testa bitorzoluta per le mazzate […]»

Mesopotamia è a sua volta un carnevale di personaggi grotteschi, pur senza mai cadere nell’eccesso di alcune descrizioni tipiche dell’opera precedente. La struttura frammentata in questo caso è resa esplicita dalla suddivisione in capitoli, ciascuno dei quali è intitolato con il nome del protagonista, spesso già incontrato come personaggio secondario nei racconti precedenti o destinato a tornare nelle storie successive in un gioco di incastri e rimandi interni. Per un lettore che non ha dimestichezza con i nomi slavi, questi citazionismi possono diventare molto ostici da seguire.

In entrambe le opere, la frammentarietà contribuisce a rimandare un’immagine poliedrica della realtà che circonda i personaggi: nel caso de La strada del Donbas, si tratta per lo più di esplorare la vita dura e grezza degli abitanti delle regioni orientali, mentre in Mesopotamia vengono descritte situazioni più aderenti all’idea di una vita moderna in un normale quartiere cittadino. Nonostante ciò, anche in questo secondo caso il lettore si ritrova davanti a eventi tutt’altro che comuni: si pensi per esempio al racconto Jura, nel cui incipit il protagonista, ricoverato in ospedale, deve dividere la stanza per tre notti con un paziente morto perché non si sa dove mettere il suo cadavere. Come spesso capita nelle opere di Žadan, nessuno si stupisce di quello che al lettore può sembrare un abominio:

« — Be’, ma dove lo metto — disse entrando e infilando le mani grassocce nelle tasche del camice. — Ormai, meglio che resti qui fino a domani.
— Ma non si potrebbe spostarlo in corridoio? — propose incerto il ragazzo.
— Qualcuno ci sbatterà contro stanotte — ribatté il medico. — Basta, — aggiunse — andate a dormire.
— E allora mettiamoci a letto — concordò Jura.»

Ancora una volta, è con il romanzo Il convitto che questa frammentarietà assume dei contorni diversi. Il terzo tassello della trilogia è un racconto di viaggio, per quanto ambientato nel cuore di una sanguinosa guerra civile. Il protagonista, Paša, deve spostarsi da casa sua al convitto dove si trova il nipote, per poi tornare indietro: la strada è già definita, il lavoro dell’autore consiste nell’arricchire questo percorso di eventi, personaggi e ostacoli. Eppure, la letteratura di viaggio è a sua volta una tipica narrazione frammentata, in cui il percorso intrapreso dai protagonisti li porta a vivere una serie di avventure circoscritte, che si susseguono una dopo l’altra aiutando i personaggi a crescere come persone. È esattamente questo che capita anche a Paša: comincia il suo viaggio malvolentieri, da uomo solo e indifferente, privo di ambizioni e di ideali, per poi ritrovarsi a vivere tante piccole (ma grandi, spaventose) avventure, con persone diverse che hanno sempre qualcosa di nuovo da insegnarli, nel bene o nel male.

Questa frammentarietà però non aiuta a costruire un’immagine varia delle esperienze di vita dei personaggi, come accadeva in La strada del Donbas e Mesopotamia. Al contrario, Il convitto rimanda sempre la stessa immagine di desolazione, paura e morte – la ripetitività è alla base dei tasselli che compongono l’esperienza di Paša finché, con il loro martellare assordante, non arrivano a scalfire le certezze del protagonista cambiando radicalmente la sua visione del mondo. A variare sono solo i personaggi di contorno, permettendo così all’autore di riflettere su come diverse personalità sappiano adattarsi in modo opposto alle medesime situazioni.
Se nei primi due romanzi non c’è alcun fuoco intorno a cui ruotano i frammenti narrativi, Il convitto segue una direzione precisa: la presa di coscienza della necessità di conoscere il mondo, decidere a qualche posizione appartenere e accettare le responsabilità che ne derivano. Paša all’inizio del racconto non sa nemmeno a cosa sia dovuta la guerra, nel finale invece deve capire chi è il “noi” e chi il “voi”, senza per questo piegarsi a giudizi di valore sulle persone che si riconoscono nell’altra forza in gioco. 

«Com’è possibile? si chiede Paša guardando la folla oscura dall’altro lato. Com’è successo? Come ho fatto a non accorgermi che i miei ragazzi adesso combattono contro di me? però, prova a giustificarsi, perché contro di me? Non ce l’hanno con me. Che c’entro io? Davvero non c’entro? si chiede ancora. A essere onesti, combattono proprio contro di te, dice a sé stesso, precisamente contro di te. Contro tutto ciò che è legato a te. E cos’è legato a me? si chiede Paša, disorientato. Tutto, si risponde, la tua materia, la tua scuola, la bandiera che sventolava lì sopra. Combattono per questo. Più esattamente, contro tutto questo.»

La frammentarietà narrativa che accomuna tutte le opere della trilogia, con o senza un punto focale che unisca i singoli episodi, è la strategia con cui Žadan dà voce ai suoi innumerevoli personaggi. Anche il romanzo più impegnato, per quanto rifletta una certa situazione sociale e militare dell’Ucraina contemporanea, nei fatti parla di umanità in termini universali. Il convitto è una storia di formazione, in cui un uomo adulto impara finalmente a crescere: la guerra, le mine, il dolore, sono solo gli strumenti con cui l’essere umano Paša comprende i suoi errori. Le persone che incontra nel suo tragitto sono a loro volta più o meno problematiche, commettono sbagli e non sempre hanno l’occasione di rimediare. Accade lo stesso in Mesopotamia, in un’ambientazione molto meno esplosiva, dove tutti i personaggi, che siano o meno i protagonisti dei loro archi narrativi, sono figure imperfette che tendono a prendere decisioni sbagliate con cui poi faticano a scendere a patti. A sua volta, La strada del Donbas vede Herman incontrare una carrellata di personaggi sopra le righe invischiati in affari complicati, il più delle volte a causa della diffusa, irrazionale e testarda convinzione che bisogna resistere al cambiamento, tenersi strette le proprietà e darsi manforte in un legame di fratellanza che vale al di sopra di tutto, a prescindere da tutto. Anche per questo il Donbas viene descritto quasi ai limiti di un far west post-sovietico, che è l’atmosfera trasmessa anche nel suo adattamento cinematografico Dike Pole (letteralmente “campo selvaggio”, con la regia di Jaroslav Lodygin, 2018).

Quella di Žadan è quindi una trilogia ambigua, sospesa tra il desiderio di raccontare le particolarità dell’Ucraina Orientale e la propensione a creare narrazioni universali, passando da storie surreali e grottesche a racconti di guerra. In un momento così delicato della storia del suo paese, Žadan rappresenta un punto fermo, un baluardo della cultura ucraina contemporanea: non solo nelle vesti di autore, ma anche come attivista, fondatore di un’organizzazione caritativa attiva anche in ambito culturale e formativo. Organizzando festival, presentazioni letterarie e altri eventi artistici, Žadan contribuisce a vitalizzare le zone del Donbas. Quelle stesse realtà che nei suoi romanzi ospitano personaggi unici, divertenti e imperfetti, a volte insicuri e a volte fin troppo testardi, arrabbiati o arresi, spaventati, deboli, forti, ambiziosi, ma mai invincibili.

Anja Boato

2 Comments

  1. mha…. diciamo che le forze separatiste filorusse spinte d putin (?) o più realisticamente da zuganov sono anche una reazione al colpo di stato finanziato da USA e UE che ha portato al potere gruppi dichiaratamente neonazisti…

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