Un cazzo ebreo, Katharina Volckmer
(La nave di Teseo, 2021 – Trad. C. Spaziani)
Per molti dei nostri primi anni in questo mondo non disponiamo pressocché di alcun potere decisionale. Non decidiamo dove o quando nascere, né in quale corpo o in quale condizione sociale; non decidiamo chi saranno i nostri genitori, né la cultura e l’educazione che ci verranno imposte. Per tutta l’infanzia e buona parte dell’età adulta subiamo anziché scegliere gli eventi della nostra vita, specialmente quelli che sono più significativi per la formazione della nostra identità.
Come ci si può liberare del peso traumatico di un passato che si è solamente subito, per divenire qualcosa di diverso? Come riappropriarsi della propria storia?
Brillante esordio dell’autrice Katharina Volckmer, Un cazzo ebreo affronta in modo irriverente e allo stesso tempo sensibilmente tragico questa problematica esistenziale. La voce narrante è quella di una giovane donna tedesca, che si rivolge al suo chirurgo plastico durante una visita programmata per la sua futura falloplastica. Il monologo ripercorre, in un flusso di coscienza, i ricordi e le riflessioni che l’hanno spinta verso la scelta di operarsi, portandola fino al lettino di quello studio medico.
Il ritratto che ne emerge è quello di una persona che è stata da sempre vittima inerme delle violenze del fato, ovvero di quell’insieme di forze inavvicinabili che governano i termini di una vita, senza concedere alcuna voce in capitolo al desiderio degli umani. Tema centrale dell’opera, questo fato dispotico viene ironicamente descritto all’interno del testo come «un tizio melodrammatico e grasso, sdraiato su una chaise-longue, che accarezza un patetico animale domestico mentre aspetta che i suoi capricci vengano assecondati».
Gli avvenimenti vengono infatti raccontati come capricci infantili di un fato egoista, verso i quali la protagonista non ha avuto alcun ruolo se non di vittima, ma che nonostante questo hanno fortemente influenzato il suo approccio con la realtà. Oggetto nevralgico della discussione è l’orrore di aver vissuto, in quanto donna, in un corpo che non ha mai scelto né sentito suo, condannata a confrontarsi costantemente con aspettative estetiche e morali che non le appartenevano, orchestrate fin da bambina dalle pressioni di una madre autoritaria.
La protagonista non ha scelto di nascere donna così come non ha scelto di nascere tedesca, e di dover condividere così il peso schiacciante di un crimine sconvolgente e inesprimibile come quello dell’Olocausto, un crimine di cui si sente macchiata pur non avendone mai preso parte.
L’idea di un flusso inconcepibilmente travolgente di traumi, imposizioni e soprusi mosso dal fato viene trasmessa con successo attraverso lo stile della narrazione. Rievocati in modo rapsodico e irruento, i ricordi della giovane donna riaffiorano a zolle, a isole di significato mai certo, mai stabile fino in fondo; arrivano a noi sparsi in un disordine che segue più il ritmo di una seduta di psicoterapia piuttosto che quello di una conversazione, dove il racconto dei fatti “per libera associazione” fa emergere, lentamente e per tentativi, il disagio interiore del paziente.
La caotica biografia della donna viene espressa da un linguaggio perfettamente coerente, anch’esso frenetico, proliferante, occasionalmente volgare e grottesco, inondante di immagini improvvise, forti e nauseanti.Un violento e irrefrenabile flusso di parole da cui non si può fuggire, così che il lettore, come il chirurgo, rimangano inermi, vulnerabili come la protagonista di fronte alle aggressioni senza sosta del suo fato.
La funzione dell’umorismo in Un cazzo ebreo è proprio quella di esorcizzare la sconvolgente consapevolezza di questa vulnerabilità, per scrollarsi di dosso la vergogna della nostra condizione di debolezza. Nell’ironia, spesso irriverente e provocatoria, avviene la redenzione da un male per il quale non si può concretamente fare più nulla, per gestire il disperato senso di frustrazione dovuto a una totale mancanza di controllo sulle indomabili forze che agiscono su di noi.
L’intelligenza e l’umiltà con cui l’autrice esibisce questo tipo di sarcasmo le concedono di esprimere pareri dissacranti senza sfociare mai nell’insensibilità. Non viene risparmiato neanche il delicatissimo tabù dell’antisemitismo, proprio verso il quale la narratrice pone le sue più feroci osservazioni satiriche, sia avanzando scandalose battute che riguardano il suo interlocutore (il chirurgo di origini ebree), sia raccontando alcune fantasie sessuali che vedono come oggetto del suo desiderio niente di meno che Adolf Hitler.
Queste battute provocatorie non vedono il loro fine unico nel pasoliniano “piacere di essere scandalizzati”, ma intendono in realtà preparare il terreno per quella che si rivela un’interessante prospettiva di critica sociale nei confronti del popolo tedesco contemporaneo. L’accusa che viene formulata è quella di raccontare ancora nel presente gli ebrei unicamente come vittime, dopo decadi dall’Olocausto, perpetrando in questo modo la violenza dispotica del loro passato. «Ma chi vuole essere ricordato in quel modo?», si chiede la protagonista, «chi vuole essere ricordato come il destinatario della violenza?»
Il torto di appartenere ad una narrazione che non contempla la propria volontà è un abuso che lei conosce da vicino. È la stessa tipologia di violenza che la società usa su di lei per sottometterla a un contesto narrativo che non corrisponde al suo, un contesto che la vuole donna, bella, felice, di successo, sposata e, infine, dopo aver dato alla luce dei bambini, brutta, deforme, con un corpo sfigurato, consumato, sconfitto.
Ed è da qui che nasce la necessità di riappropriarsi della propria narrazione, di riconquistare la propria storia, per ottenere così un limitato ma consistente arbitrio sulla propria vita. Questa conclusione va di pari passo con le più attuali correnti di pensiero femminista e post-colonialista, che hanno imparato a comprendere l’importanza della narrazione storica e il pericoloso potere sociale che ne deriva. La dignità umana viene ripristinata da una storia non più scritta dai vincitori, ma da chi la vive in prima persona.
L’operazione di falloplastica diventa così il riscatto con cui la protagonista si libera dall’oppressione e rivendica la sua libertà di individuo, sottraendosi alle leggi di un regime patriarcale. È un tentativo di resistere alla violenza delle capricciose forze del fato che ci muovono come burattini, un modo per deludere con soddisfazione tutte quelle aspettative sociali che accompagnano dalla nascita il corpo di una donna. Un modo per redimere il passato e cambiare la propria storia.
Divertente e mai scontato, Un cazzo ebreo ha il merito di mostrare con leggerezza, sensibilità e senza mai prendersi troppo sul serio come nella propria intimità possa avverarsi l’inizio di una rivoluzione, poiché se esiste un’istanza dove le imposizioni sociali possono fallire risiede proprio nella sessualità, in quel cuore caotico e pulsante che caratterizza inevitabilmente una persona.
Davide Lunerti