Lo strappo: Memoria di ragazza e La straniera

Un confronto tra Annie Ernaux e Claudia Durastanti

Più ancora che di autobiografia bisognerà parlare, quindi, di autofiction: «artificio esclusivamente letterario […] come pretesto: l’io in quel caso non è che uno strumento particolarmente sensibile che serve a minare gli stereotipi della realtà, ripartendo da quel che si conosce meglio». Poco importa che gli eventi raccontati coincidano o meno con quelli effettivamente vissuti: l’io dell’autore deve sempre raggiungere la generalità del «noi», deve diventare, insomma, un «io sociologico». L’io, vero o finto, ma sempre più spesso vero e finto, diventa «una specie di robot, o di clone, da spedire in avanscoperta dove il territorio è contaminato».
RAFFAELE PALUMBO MOSCA , L’invenzione del vero

«Tutto ciò che fai,» scrive Annie Ernaux, «è per il Padrone che ti sei dato in segreto»: c’è qualcuno che si continua a servire e venerare, per quanto profondamente nascosto nell’inconscio. In realtà la schiavitù a vita non inizia con un incontro o con un legame, ma con uno strappo, che se si potesse trasporre in suono sarebbe uno schiocco secco e preciso.

Lo strappo è il centro sia di Memoria di ragazza sia de La Straniera: quel Padrone che ad un certo punto della vita ognuno si sceglie dovrebbe, con la sua improvvisa e totalizzante presenza, donare finalmente la pace. Invece è foriero di guerra, perché copre con la sua ombra tutti gli angoli dell’esistenza e la condiziona, spesso in direzione distruttiva. In Memoria di ragazza il Padrone è H, biondo educatore della colonia estiva in cui la protagonista si trova a passare l’estate. Per tutta la prima parte dell’opera, Ernaux si riferisce alla sé del passato come a lei, «la ragazza del ’58»:

«Quella ragazza là, quella del 1958, capace di manifestarsi a cinquant’anni di distanza e di provocare un tracollo interiore, è dunque ancora nascosta dentro di me, da qualche parte, irriducibile. Se il reale è ciò che agisce, produce degli effetti, secondo la definizione del dizionario, questa ragazza non è me ma è reale in me. Una sorta di presenza reale.»

Non fatica a ricordare, ma a riconoscersi; eppure non ci sono dubbi sul fatto che anche se la sua vita è stata condizionata a partire da qualcun altro, chi l’ha condizionata è stata proprio lei.

In Memoria di ragazza, lo strappo avviene nel momento in cui la protagonista adolescente perde la verginità con un ragazzo-uomo appena conosciuto, in una zona grigia che non era davvero desiderio, e che aveva molto della necessità. L’essenza profondamente catastrofica di questo primo rapporto sessuale avrà effetti devastanti sul rapporto che la «ragazza del ’58» ha con tutto ciò ch’è umano: il cibo, il sonno, il corpo, le relazioni. Diventa una comparsa: è «spettatrice delle altre, della loro leggerezza e della naturale facilità»; è «pesante e unticcia tra ragazze dalle camicette rosa, l’innocenza beneducata e la sessualità decorosa»; è «straniera». La ragazza delle memorie abita una dimensione a metà fra l’immaginario e il reale sconquassante che è molto vicina a quella della giovane Claudia (o, secondo la pronuncia di Brooklyn: cloudy). Per la Durastanti de La straniera, «rileggere te stessa significa inventare quello che hai passato»: il processo attraverso cui ricostruisce la propria vita dalla nascita al presente è quindi speculare all’immersione mnemonica svolta da Annie Ernaux.

Proprio come lei, Durastanti attraversa l’esistenza con un’incostanza estrema; ma lo strappo stavolta avviene all’altezza della nascita, che è senza mezzi termini il trauma centrale e primo. Nata da due genitori sordi che s’impegnano a vivere la propria disabilità non con dignità e non con autocommiserazione, ma «con incoscienza», l’assenza totale di normalità sembra accompagnarla ancora prima che lo strappo avvenga, quasi come un problema genetico derivato dal fatto che i nonni materni fossero cugini di primo grado: come se la madre fosse sorda «per quella cattiva ricombinazione del sangue». Eppure non è la sordità dei genitori, o i matrimoni “dentro la famiglia”, o il continuo spostarsi dalla Basilicata a Brooklyn a Londra a Roma a darle questa stranezza endemica. L’identità straniera e schizofrenica di Claudia deriva dall’influsso ancestrale dei Padroni a causa dei quali (e in un certo senso anche per i quali) tutta la vita si deforma:

«Qualsiasi cosa tocchino i miei genitori si adegua alla loro decadenza, sono un re e una regina taumaturghi che invece di guarire i malati o fare miracolo convincono qualsiasi creatura in loro presenza a disarticolarsi e a lasciarsi andare alla propria possibile follia.»

Quando sembra che «morire o impazzire» sia l’unico modo per «essere all’altezza» dei genitori, il dolore si solidifica piano attorno al corpo dell’autrice-protagonista, arrivando, proprio come in Memoria di ragazza, a mediare ogni rapporto con il mondo esterno e con l’umanità. La soggettività portata al parossismo con cui la madre e il padre di Claudia vivono la vita porta a dubitare, sempre: perché fin da subito in questo libro i genitori mentono, e quindi tutto sarà sempre incerto. Incertezza non significa freddezza e distacco, ma un ribollire continuo di movimenti ed elettricità: è tutto così profondo e doloroso che scorre sotterraneo fra un cambio di casa e l’altro, fra un trauma e una carezza, fra una madre «nebulosa» e un padre «galassia nerissima», inghiottente.

Sia in Durastanti sia in Ernaux è forte la paura di essere condannate a diventare come i genitori, ma lo è anche la paura di essere così diverse da loro da non poterli mai più capire. Ernaux, che ha anima di intellettuale borghese presa fra amore e odio per la dimensione contadina genitoriale, si compiace di questa sua lontananza dal mondo parentale – e tuttavia, come un trapianto fallito, viene rigettata da ogni dimensione alternativa. Ricorre così a un diverso tipo di trapianto. Nel proprio isolamento, cerca con discrezione di mettere radici letterarie:

«Ho iniziato a fare di me stessa un essere letterario, qualcuno che vive le cose come se un giorno dovessero essere scritte

E specularmente Durastanti:

«Verso la fine del liceo, avevo iniziato a sperimentare una forma isterica di solitudine, sparendo dalla vita pubblica e confinandomi in casa per giornate intere. Mi sforzavo di essere una cosa sola, come di cose sole non ce n’erano state.

Ero diventata un’amica violenta, una figlia insopportabile, e se non fossi partita per frequentare l’università, sarei diventata una carta ufficiale dei tarocchi, un personaggio ridotto alla letteralità della sua esistenza, proprio come mia madre.»

Entrambe cercano di scriversi da sole, tentano di recuperare il possesso del proprio essere dopo uno strappo che ha tolto loro, per così dire, la propriocezione. Allora di chi sarà la storia che viene raccontata? L’immersione nel ricordo – il tirarne fuori faticosamente i frammenti dal magma indistinto, come da un pozzo di montaliana memoria – sarà davvero
autobiografia
?

«In questo preciso istante, per le strade, negli open space, in metropolitana, nelle aule magne, milioni di romanzi sono scritti nelle teste delle persone, capitolo dopo capitolo, cancellati, ripresi, e tutti muoiono, perché realizzati o perché non lo sono.»

Ernaux riesce ad entrare, sprofondare e poi riemergere dal suo abisso, e sa guardare con distacco e autoconservazione alla «ragazza del ’58». Durastanti invece resta spersonalizzata dalla sua costante fatica di creare un involucro credibile col quale affrontare il mondo degli Altri. Insomma, è lei ma non è lei. Si arrampica forsennatamente verso la superficie, tentando di colmare il dislivello linguistico e comunicativo, e pertanto sociale, che la separa dagli altri. Ma la durezza e la concitazione della sua infanzia, che facevano presagire una vita da vittima nell’età in cui ancora si ha la possibilità di diventare carnefici, l’hanno resa carnefice a ogni effetto. Adesso è lei ad avere il potere di mentire che avevano i suoi Padroni; ma l’altra faccia della medaglia è che l’incertezza strutturale è rimasta.

Una volta ho sognato un mostro. Come le creature spaventose della mia infanzia, avevo gli occhi rossi, un corpo ripido e sensuale, ma invece di aggredire la mia vittima, invece di farla a brandelli o di morderle il collo, l’unica cosa che ho fatto è stata appoggiarmi a lei, distendermi sulla sua schiena in modo che non ci fosse più una distanza tra noi. Quando la mia pelle inumana e triste è divenuta la pelle di quest’altra persona e abbiamo iniziato a respirare insieme, quando nessuno è stato più capace di dire quale fosse la differenza tra l’uno e l’altro, in quale vena nascesse il sangue e in quale vena defluisse, mi sono svegliata. Ero ancora un mostro, ma non era più sola: la violenza più grande che ho fatto a una persona non è stata abbandonarla o spezzarle il cuore, ma renderla simile a me. […]

“Se non posso fidarmi dei miei ricordi, di cosa posso fidarmi allora?” […] Ma per il mondo fuori delle due l’una: non puoi essere sia il carnefice sia la vittima, il dottor Frankenstein e Frankenstein stesso. Non serve a nulla che Ada Joanne Taylor dica alle persone: “Voi non potete dirmi che non sono un’assassina”. Ma qualcuno può dirlo a me. Qualcuno può dirmi che non ho distrutto nessuno, che anche se me lo ricordo, anche se ho sentito la pelle di una persona che ho amato schiantarsi sotto la mia e diventare mostruosa come la mia, peggiore della mia, non c’è nessuna verità in questo, nessun ordine divino pronto a stabilire chi ha creato chi. A separarci, per questo. […]

Il mio mostro non parla, non lo fa più da tempo. Però io continuo a chiederglielo: se l’ho creato io, se gli ho fatto del male, se c’è qualcosa che potrò mai riparare. Vorrei dirgli che non è stato vile, che se lui ha ceduto alla mia vita anche io ho ceduto alla sua.


Il mostro che si accuccia nel letto accanto all’amante ignaro è una grottesca proiezione dell’immagine patetica di H che spinge con ottusa decisione il suo ventre contro la nuda Annie, sorniona e dissociata sul lettino della colonia al mare. Annie si pensa e si dice vittima per tutta la durata del romanzo, ma il suo percorso di memoria la porta a comprendere e riaccogliere quasi con affetto la «ragazza del ’58», che una volta tornata padrona di sé appare in grado di gestire la propria esistenza. Solo i carnefici sopravvivono: Claudia si crede carnefice, ma la vediamo soccombere.

Il mostro è autocosciente, sa chi è e come lo è diventato, mentre la «ragazza del ’58» è lontana da sé anni luce. Per raccontarla serve essere distanti da lei almeno quanto lei lo è stata da sé: ecco perché nessuno se non la stessa Ernaux (dopo più di cinquant’anni) può penetrare i pensieri della ragazza. Questo le dona una consapevolezza di cui prima è sempre stata priva, permettendole di guardare allo strappo con la speranza di ricucirlo.

Le nevrosi che in Memoria di ragazza scaturivano dal lacerante approccio al sesso, in La straniera sono sì generate da un’infanzia claudicante, ma in qualche modo possono essere anche lette come strutturali: sono le nevrosi dei millennials, della loro iperattività mentale, dell’allegra e dinamica disperazione in cui vivono da sempre e che nessuno s’è mai sognato di mettere in discussione. Il dubbio sta, piuttosto, nella possibilità di riparare la ferita.

Di certo è forte la tentazione di accomunare queste due scrittrici facendole precipitare nel pozzo nero delle donne di cui parlava Natalia Ginzburg; ma non si tratta di depressione femminile, o di una qualche forma di menopausa anticipata. C’è un’universalità speciale che accomuna i due libri. Non sono vere autobiografie, perché manca quello sguardo di egotismo un po’ ombelicale che ne caratterizza tante: qui invece la vita e la realtà vengono raccontate e rimodellate su uno stampo collettivo, che ha sempre un occhio puntato sul lettore, con lo scopo di avvicinarlo alle protagoniste. Questa universalità si costruisce a pezzetti: il Padrone per cui si vive secondo Ernaux non è Dio o il padrone classista, e non è nemmeno il Maschio, ma è l’esatto contorno dell’oggetto di desiderio e rabbia che ognuno prima o poi si sceglie come Padrone. Le voci narranti si tendono come su una fionda, e schizzano in avanti non appena avviene lo strappo, non appena identificano il punto preciso in cui l’instabilità è cominciata (o almeno si è resa visibile). Un osservatore particolarmente cinico potrebbe dire che non è altro che una ripetizione del vecchio concetto di cui erano imbevute le tragedie greche: il trauma che segna, e la contaminazione che si trasmette di padre, in figlio, in nipote e così via, segnando generi e generazioni. Quello che abbiamo di diverso oggi è il desiderio spasmodico di sfuggire a questa contaminazione, e rimane solo da chiedersi se scamparle sia effettivamente possibile. Ma il dubbio resta. Si può raccontare tutta un’esistenza; eppure – come si chiede Claudia Durastanti a chiusa dell’ultima pagina –, sarà una storia vera?

Emma Cori

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