Il libro di X: un romanzo fatto di carne

Il libro di X, Sarah Rose Etter
(Pidgin Edizioni, 2021– Trad. S. Pirone)

La forma del cromosoma X, quello che distingue la donna dall’uomo, fa pensare a due corde annodate al centro. L’immaginazione allucinata di Sarah Rose Etter scava dentro a questa associazione per costruire un romanzo imperniato su donne e nodi, o meglio: su una donna-nodo.

Tale è Cassie, nata con l’addome annodato come sua madre e sua nonna: una rara anomalia genetica che la comunità scientifica ha rinunciato a indagare. Il confronto tra generazioni, non a caso, si sviluppa proprio attorno al diverso rapporto col proprio corpo e ai compromessi che si è disposte ad accettare: ciò che Cassie desidera di più, fin da ragazzina, è affrontare il problema alla radice, liberarsi di una malformazione che la fa sentire a disagio e suscita repulsione nei suoi compagni. La madre, invece, vorrebbe spingerla verso una vita di pacificata rassegnazione, in cui si convive con la propria deformità e ci si traveste per adeguarsi al mondo: cure dimagranti, trucchi e vestiti leziosi sono l’unica strada percorribile. Questo ostinato desiderio di “snodarsi” accompagna la protagonista in tutto il suo percorso: dal villaggio rurale in cui cresce, alla città dove si trasferisce da adulta, e in cui la speranza di reinventarsi si stempera in un anonimo lavoro da dattilografa. In questi luoghi Cassie sperimenta anche diversi tipi di rapporti con gli uomini: l’infatuazione che sfocia nella violenza, gli squallidi incontri nei bar, l’idealizzazione che non mette radici profonde e quindi non regge ai colpi della vita. La relazione più sofferta di tutte, però, resta quella con il suo corpo.

Cassie è in effetti poco caratterizzata dal punto di vista psicologico, come se l’autrice volesse renderla il contenitore di una condizione femminile universale, e i suoi sentimenti sono espressi soprattutto attraverso sensazioni fisiche. Ciò che amplifica questo effetto, rendendolo davvero potente e suggestivo, è l’uso sapiente dell’elemento fantastico. Il romanzo, infatti, si articola su tre diversi registri molto diversi tra di loro. Al centro si colloca la vicenda vera e propria, che s’innesta nel filone del realismo magico: le case si puliscono sfregando spicchi di limone sulle pareti, succhiare le pietre aiuta a dimagrire, la carne che la famiglia di Cassie vende al mercato non deriva dalla macellazione di animali, ma si estrae da una cava.

Agli estremi, invece, troviamo due serie di inserti dai toni opposti, che periodicamente interrompono la storia. Da una parte successioni asettiche di fatti, curiosità dal gusto enciclopedico raggruppate per temi, contrappongono alla narrazione fantastica il rigore straniante della realtà. Dall’altra parte ci sono le Visioni con cui la mente di Cassie rielabora le cose che le succedono: a volte capovolgono eventi traumatici riscrivendoli in chiave positiva, altre volte danno corpo alle sue paure e pulsioni più oscure. Nelle Visioni l’esuberanza immaginifica è molto più forte e disturbante che nella narrazione vera e propria: ci sono fiumi pieni di cosce, campi di colli pronti per essere strangolati, innamorati che si staccano la testa a vicenda.

Tra tutte queste immagini, le più pervasive sono quelle legate alla carne: la carne fuori da noi – il cibo che viene masticato e ingoiato, sporcando la bocca di sangue – e la carne dentro di noi – quella di cui siamo fatti. Le due carni si specchiano l’una nell’altra, e il luogo che meglio rappresenta questo dialogo è la cava della famiglia di Cassie, che è fonte di nutrimento ma nella sua calda umidità rimanda anche alle viscere, all’utero, all’interno dei corpi umani.

«Le pareti sono tanto gonfie che quasi si toccano, come se fossimo inginocchiati tra i corridoi di un gigantesco cuore.» [pag. 86]

All’inizio, l’accesso alla cava è riservato al padre e al fratello di Cassie: gli uomini sembrano avere un istinto di pancia che li guida verso la carne come rabdomanti e vivono una fusione spontanea e serena con questo mondo, che alle donne è precluso. Cassie però, una volta entrata nella cava, si rivelerà sorprendentemente brava a estrarre la carne: per un certo periodo questo sarà l’unico luogo in cui si sentirà davvero a suo agio, centrata, forte e rispettata. 

Al di fuori della cava, invece, sarà sempre schiacciata dal suo corpo annodato, che le impedirà di imporsi come soggetto attivo nella propria vita. In effetti Il libro di X, nonostante segua tutta la parabola esistenziale della protagonista, non può essere definito un romanzo di formazione, ma piuttosto un ciclo di illusioni senza sbocco. Un trasferimento, un intervento chirurgico, un amore: ogni volta che nella sua vita entra una novità, Cassie spera che quella sia la cura per il suo senso di inadeguatezza, ma nessuno di questi cambiamenti riesce a intaccare il nocciolo del suo disagio. 

Il nodo, malformazione fantastica, si fa metafora di infiniti problemi ginecologici reali. Pur definito dai giornali un problema prevalentemente estetico, col passare del tempo provoca una sofferenza fisica sempre più insopportabile. A lungo Cassie incontra medici che alzano le mani, ammettono candidamente «non abbiamo fatto abbastanza progressi nella ricerca per gestire una cosa del genere», propongono rimedi palliativi che si rivelano dolorosissimi e del tutto inutili. Il romanzo, dunque, mette in luce la diffusa indifferenza e disinformazione riguardo a numerosi disturbi femminili, spesso liquidati come se fossero elementi costitutivi dell’essere donna, e fosse quindi inutile cercare una cura. Sono argomenti di cui purtroppo si parla poco, e a Etter va il merito di averli trattati attraverso immagini penetranti. 

Per quanto la denuncia sociale sia certamente molto presente, però, nel romanzo la sofferenza dell’essere donna appare come un qualcosa di cosmico: c’è un forte senso di inesorabilità in questa natura contorta e annodata che si trasmette di madre in figlia e che alla fine neanche il progresso della medicina potrà curare, se non nella sua manifestazione esteriore. Questa visione è frutto di una scelta legittima e consapevole, ed è senz’altro efficace sul piano narrativo. Passando da una prospettiva critica a una più personale, però, ammetto di aver sentito la mancanza di uno spiraglio d’azione, di un’alternativa – anche solo immaginata – a un dolore che pare avvitarsi su se stesso. Certamente non è compito dell’arte proporre soluzioni ai mali del mondo, né tantomeno regalare speranza posticcia. In questo caso, tuttavia, l’assenza di una pars construens rischia di relegare per sempre la donna a quella stessa condizione che il romanzo denuncia.

Benedetta Galli

5 Comments

    1. Ciao! Sì, l’ho letto qualche anno fa. Sono due modi molto diversi di declinare l’elemento fantastico, ugualmente interessanti. Il realismo magico di Murakami di solito si innesta dentro a un contesto geografico-culturale descritto con precisione estrema, e i personaggi stessi si stupiscono quando iniziano a succedere cose strane nelle loro vite. Il mondo di Etter invece è molto stilizzato, l’atmosfera ricorda il Sud degli Stati Uniti ma tutti i riferimenti sono vaghi e contraddittori: è come se si trattasse di un universo parallelo in cui l’elemento fantastico fa da sempre parte della vita dei personaggi, e quindi non viene accolto con sorpresa.

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      1. Tra gli autori che citi nel pezzo, ho letto soltanto Murakami. Certamente i suoi periodi brevi e incalzanti contribuiscono a creare il ritmo serrato di cui parli. Non direi, però, che Murakami non si soffermi sull’analisi psicologica o sulle descrizioni: pensa solo alla meticolosità con cui parla delle portate di un ristorante, dell’abbigliamento di una persona, dell’arredamento di una stanza. Insomma, io credo che anche Murakami si adagi sulla narrazione: lo fa solo in maniera diversa rispetto agli autori occidentali -in maniera più analitica, direi. In ogni caso, come giustamente dici, si tratta di una cifra narrativa molto diversa rispetto ai romanzi che siamo abituati a leggere, e questo è senz’altro uno dei motivi che hanno contribuito al successo di Murakami in Europa. La letteratura occidentale, d’altra parte, non è granitica e si è sempre trasformata molto attraverso i secoli: sono convinta quindi che anche questi contatti lasceranno il segno.
        Grazie per aver condiviso queste riflessioni!

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