Guida alla notte per principianti, Mary Robison
(Racconti edizioni, 2021 – Trad. S. Reggiani)
Una caratteristica dei testi letterari degni di questo nome è che non vanno soltanto letti, ma ri-letti. È grazie a questo meccanismo che la Letteratura resta vitale, sollecitandoci alla comprensione del testo e (di conseguenza) del mondo. Guida alla notte per principianti della scrittrice americana Mary Robison, da poco pubblicato in Italia da Racconti edizioni, fa parte di questa rara categoria di testi. Si tratta di una raccolta di tredici brevi racconti originariamente pubblicati negli anni ‘80, la cui natura semplice e netta sollecita a cercarne il senso nascosto e sottile.
Di cosa parlano questi racconti? Prevalentemente di relazioni, spesso disfunzionali: troviamo ad esempio una figlia e una madre che abbordano ragazzi spacciandosi per sorelle, padri assenti o peggio inutili, una coppia in piena crisi che si affida ad una cinica consulente matrimoniale. I personaggi di Robison sono persone normalissime e senza particolari qualità, con problemi più che ordinari. In ciascuno di questi racconti essi però acquisiscono una consapevolezza diversa sulle loro vite, tramite una folgorazione discreta e silenziosa che si rivela in uno spazio e in un tempo impercettibili, magari tra una parola e l’altra di un dialogo banale. Eppure, come osserva Rossella Milone nella sua postfazione, queste rivelazioni non conducono a nulla di nuovo e non cambieranno la vita di queste esistenze minuscole.
In Guida alla notte per principianti non succede niente di particolarmente eclatante. In questo senso, ricorda quel capolavoro che è Stoner: come nel romanzo di John Williams, questi racconti hanno la capacità di farci acuire lo sguardo sul quotidiano, rendendo straordinario ciò che ad un primo sguardo sembrava perfettamente ordinario. Robison è in grado di evidenziare aspetti apparentemente trascurabili e questa capacità è ben descritta dalle parole di uno dei suoi personaggi che, parlando della pittura di Henri Rousseau, afferma:
‹‹(…) guardi i suoi quadri e ti sembra di osservare qualcosa con la lente d’ingrandimento. Ti trasportano in un prato, o in mezzo alla giungla, per dire, e ti ci lasciano pure. La pittura, ho scoperto, si fa con gli occhi››[1]
Le parole della scrittrice americana ci immergono subito in uno spazio: queste pagine riescono ad essere tridimensionali grazie anche ad una precisione assoluta nel descrivere situazioni e persone, la quale si ritrova anche al livello lessicale, con l’utilizzo di termini molto specifici e accuratamente tradotti da Sara Reggiani (non nascondo di aver dovuto cercare il significato di parole come ‹‹pacciame››, ‹‹apprettata›› e ‹‹assito››). Le descrizioni hanno l’immediatezza delle immagini: con poche parole possiamo vedere subito con chiarezza la natura dei personaggi, come nel caso della figlia del coach nell’omonimo racconto:
‹‹La figlia, Daphne, curiosò in cucina. Aveva i capelli scuri, l’aria svogliata, quindici anni. Gli occhi scomparivano sotto la frangia. Aprì l’enorme sportello del frigorifero.››[2]
Questa estrema accuratezza si affianca ad una ricerca dell’essenzialità e del rigore: leggere i racconti di Robison è un po’ come guardare un film del regista giapponese Ozu, in cui non c’è mai nulla di troppo, ma solo ciò che serve a scandagliare la profondità delle relazioni.
La precisione matematica nelle descrizioni e di alcuni incipit fulminanti (come ‹‹Qui lo dico e qui lo nego: a trentasei anni punto a due cose, restare sobria e saldare il conto della mia Mastercard.››) cela però un senso misterioso, tanto che ad una prima lettura i racconti di Robison sembrerebbero quasi degli enigmi. Essi non si presentano come narrazioni compiute con un inizio, uno svolgimento e una fine, ma sono esattamente come gli eventi della vita: accadono, semplicemente. Gli incipit sono in medias res, mentre i finali appaiono come delle interruzioni a volte repentine che lasciano interdetti. Il senso di questi racconti è così sottile che la loro “chiave” può essere rintracciabile nei titoli, i quali spesso segnalano parole tratte dai discorsi dei personaggi, evidenziando quello che potrebbe essere il centro focale del racconto.
L’iperrealismo della scrittrice americana consiste proprio in questa assenza di espedienti narrativi (almeno visibili) e in una totale riluttanza ad affascinare e a colpire chi legge. Tutto questo è stato definito anche “minimalismo”, etichetta che Robison considera addirittura offensiva; probabilmente si tratta invece di quella “arte senz’arte” a cui possono aspirare solo i grandi scrittori, che nascondono accuratamente la loro abilità al servizio della verità di ciò che raccontano, senza il bisogno di vestire delle parole già così esatte.
Giacomo De Rinaldis
[1] p. 68
[2] p. 44