A che cosa serve un cannocchiale?

Il canocchiale del tenente Dumont, Marino Mogliani
(L’orma Editore, 2021)

Quello che il tenente Dumont, il capitano Lemoine e il soldato Urruti – i tre protagonisti dell’ultimo romanzo di Marino Magliani – usano per scrutare le creste e le valli della Liguria, alla ricerca di potenziali pericoli o del mare che dovrà portarli lontano, al di là dell’azzurro e del giallo delle coste italiane, non è uno strumento fatto solo per avvicinare lo sguardo. Il cannocchiale marca una distanza, ritaglia allo sguardo uno spazio di sicurezza che protegge: dalle persone, dai luoghi, dagli avvenimenti. Una distanza che, con un gioco di lenti, ritagli, riflessi, aiuta a mettere a fuoco più chiaramente. Magliani usa lo stesso escamotage dei suoi protagonisti – la distanza, ma sul piano temporale – per parlare della sua terra, la Liguria, ambientando il suo romanzo nell’estate del 1800 che seguì la battaglia di Marengo.

Dumont, Lemoine e Urruti, due francesi e un basco, sono tre disertori. Sono scappati dal campo di battaglia nella confusione del pomeriggio, poco prima della rimonta gloriosa dell’esercito napoleonico. Prima di Marengo era stato il tempo dell’Africa, dell’Egitto con le sue piramidi, la sua luce ramata e un lago dalle acque paludose, Mareotis, che aveva rivelato ai tre uomini la mollezza dolce dell’hashish. Proprio per seguire la tratta dell’hashish e il suo uso tra le truppe francesi, un medico zelante, fiammingo di stanza a Jaffe e al servizio dei francesi, Johan Cornelius Zomer, ordisce, con l’avallo di Marat, un pattugliamento serrato che dalle coste egiziane seguirà i tre fin alle svolte tortuose e sdrucciolevoli della fuga ligure.

Mentre il pedinamento si sfilaccia e si dilata, il lettore, piano piano, comincia a raccogliere le informazioni, a chiarirsi le idee. Il romanzo, infatti, come avvertito nel paratesto, è costruito da una giustapposizione di materiali: una cronaca della fuga, le lettere di Zomer al chirurgo Dominque Larray, suo collega a Jaffe, appunti sparsi dal taccuino di Zomer, i dispacci della spia Pangloss, al servizio di Zomer. Il senso d’insieme di quel che si sta leggendo si avvicina per poi scomparire poco dopo, come il mare che gioca a nascondersi tra le pietraie liguri e che sembra sempre, ai tre disertori, un passo più in là.  Questa frammentazione dello sguardo – del lettore, ma anche dei protagonisti stessi, persi tra desideri personali, piccole reticenze, false convinzioni – rallenta il tempo di lettura e non permette di costruire, almeno all’inizio, una relazione di familiarità con il romanzo.

Nel tempo rotto della fuga, però, come di desiderio e speranza si riempiono i tre, così cresce nel lettore la voglia di sapere come andrà a finire. C’è un momento, quando si usa il cannocchiale, in cui la vista è nebulosa, i contorni sfocati, e ciò che si sta guardando esiste solo tra l’occhio e la lente. È un attimo; poi la mano corre al corpo oblungo e lucente, lo ruota, la messa a fuoco è sistemata. In quel frangente, però, tutto può succedere.

L’obiettivo della fuga è Pont Maurice, un paesone, com’è definito nel testo, dove il capitano Lemoine afferma di avere dei contatti per lasciare l’Italia.  L’orizzonte mobile che i tre inseguono è ricucito da una scrittura che sa descrivere la pietrosità della montagna, la verticalità della luce che taglia le cime, il blu mosso del mare. Disertori una volta, disertori per sempre: e allora giù nei canneti, nascosti tra i cespugli di ginestre, in fuga tra boschetti di ulivi, in fila indiana sul crinale, nello sfiorire dei giorni e dell’estate, sfiorando paesi e casolari dove la guerra arriva perché arrivano le razzie e le gabelle. La gente che abita le valli, che mette a frutto terrazzamenti stretti e ingenerosi, votata alla fatica e alla fame, dea capricciosa e assoluta, poco si cura del passaggio Dumont, Lemoine e Urruti, nel bene e nel male. Sono tutti figli della stessa esistenza meschina.

Eppure, la fuga prosegue, e il «rumore dell’occhio», l’esercizio dell’occhio (il cannocchiale) continua, nella costruzione di una geografia del paesaggio che ha bisogno, per essere conosciuta, di uno sguardo distante, di uno sguardo inquieto.

Alessia Maria Sciannamblo

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