Un serpente di giugno: intervista a Tsukamoto Shin’ya

Per i cinefili il nome di Tsukamoto Shin’ya non risulterà certo nuovo: i suoi film hanno generato fenomeni di culto che ne premiano la visionarietà, l’eclettismo dei temi, l’impronta fortemente autoriale e insieme travolgente. Ripercorrere nel dettaglio la sua ricca carriera sarebbe ora troppo impegnativo, quindi ci accontenteremo di citare solo quei film che sono stati presentati proprio in Italia: il ricordo dell’eco mediatica di opere come Tetsuo, lungometraggio d’esordio premiato al FantaFestival di Roma nel 1989, Kotoko, Premio Orizzonti 2011 alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Nobi (Fires on the Plain, 2014) o il più recente Zan (Killing, 2018), passati sempre a Venezia, si accompagna a quello che è stato il suo grande esordio alla Mostra del cinema, avvenuto nel 2002 con Rokugatsu No Hebi (A Snake of June), vincitore del Premio della Giuria. Esiste quindi un legame tra A Snake of June e l’Italia, non solo perché il film è stato presentato e premiato la prima volta a Venezia, ma perché l’omonimo libro, scritto sempre da Tsukamoto, è stato tradotto recentemente proprio in lingua italiana in occasione del ventennale dall’uscita dell’opera cinematografica, per la traduzione di Francesco Vitucci. La versione nostrana è stata leggermente rivista dall’autore, il quale ha anche realizzato l’immagine di copertina.

Un serpente di giugno (Marsilio 2022) è quindi l’adattamento letterario di una storia nata per il grande schermo. Tre figure dominano la scena: c’è Rinko, cuore portante della narrazione, una donna che per mestiere offre supporto psicologico telefonico per una linea di emergenza, ingabbiata in un matrimonio rigido con un uomo sensibilmente più anziano; c’è Shigehiko, il marito, ossessionato dalla pulizia e dalla lotta ai cattivi odori; e infine Iguchi, interpretato nel film dallo stesso Tsukamoto, un uomo malato che si salva dal suicidio solo grazie alle parole confortanti di Rinko e del suo servizio di assistenza. Come segno di riconoscenza, Iguchi decide di aiutare Rinko a liberarsi dell’oppressione che lei stessa infligge al cuo corpo e alla sua sessualità, costringendola a mettere in scena alcune fantasie erotiche. Quella che comincia come una violenza si trasforma però in un percorso di auto-consapevolezza che porta Rinko a riprendere il controllo non solo del suo corpo, ma del mondo che la circonda e degli uomini che fanno parte della sua vita.

In occasione quindi dell’uscita dell’edizione italiana del libro, abbiamo avuto il piacere di parlare di Un serpente di giugno con Tsukamoto Shin’ya. In Giappone sono usciti anche i romanzi ispirati ai film Nighmare Detective 1 e 2 e al terzo capitolo dell’opera di culto Tetsuo, mai arrivati in Italia.
Ringraziamo inoltre Roberta Novielli, il cui aiuto è stato fondamentale per organizzare l’intervista e per la traduzione dal giapponese.

Un serpente di giugno è uno dei pochi film della sua ricca carriera che ha poi adattato anche alla forma letteraria, nonché l’unico a essere stato tradotto in italiano. Perché proprio la storia di Rinko? Cosa la rende adatta al romanzo, oltre che allo schermo?

Ho sempre desiderato riuscire a scrivere un romanzo, anche se temevo fosse un’operazione difficile. Invece quando ho cominciato a girare Un serpente di giugno, una casa editrice mi ha contattato per pubblicare un libro. Allora ho pensato che fosse giunto il momento di avviare quest’avventura. Scrivendo Un serpente di giugno, mi sono reso conto di quanto fosse complesso. Dovevo trovare un tipo di espressione nuova per rendere dei contenuti nuovi. Un serpente di giugno era perfetto per essere adattato al romanzo anche perché non tutti i miei film si prestano a questa operazione. Nobi per esempio deriva da un romanzo, mentre Kotoko è nato dalla collaborazione con Cocco [n.d.t. cantante e attrice giapponese], quindi non era qualcosa di davvero originale, non era qualcosa di mio. Un serpente di giugno invece sì.

Quindi ha lavorato in contemporanea alle due versioni o il film precede comunque il romanzo?

Il film precede il romanzo, ma il romanzo prendeva corpo nella mia mente man mano che giravo il film.

Ha mai pensato di fare l’opposto? Scrivere un romanzo originale e poi eventualmente adattarlo per il cinema?

Nonostante abbia sempre desiderato scrivere un romanzo autonomo, fine a se stesso, lo trovo estremamente difficile. Soprattutto la fase di avvio. Anche nel caso dei film è complesso, ma dopo tanti anni ormai forse ci sono abituato, e ogni storia diventa una sceneggiatura. Nel caso del romanzo, non posso ancora dire che ogni storia diventi un libro.

Ci può parlare di come è nata e maturata l’idea del film Un serpente di giugno?

Giugno è il mese dei tifoni in Giappone, quindi delle grandi piogge. Ogni volta che arrivava giugno, mi dicevo che volevo assolutamente fare quel film. Poi però me ne dimenticavo, almeno fino al giugno successivo, quando mi rimproveravo di nuovo. Questo finché un giorno non mi sono detto: “ecco, sta per arrivare il tifone” e mi sono preso per tempo, ho scritto la sceneggiatura ed ero pronto a girarlo.

Da un punto di vista espressivo, che cosa hai dovuto sacrificare dell’opera originaria nell’adattamento letterario? E all’opposto, che cosa aggiunge la letteratura alla storia di Rinko che il cinema non poteva offrire?

La principale differenza tra il film e il romanzo riguarda la resa della psicologia dei personaggi, ma anche la spiegazione delle situazioni che li hanno portati a essere quelli che sono. Nel romanzo, credevo fosse necessario contestualizzare anche il passato, riuscire in qualche modo a spiegare quello che loro erano stati prima di arrivare lì, a quel punto. È un po’ come se la percezione del film fosse più immediata, mentre il romanzo ha bisogno di questo apparato in più. In realtà non so se sia corretta o meno quest’operazione, ma è quello che ho sentito quando mi sono ritrovato, dopo aver fatto il film, a metterlo sulla carta. Però non penso che si vada mai a perdere qualcosa in una o nell’altra forma. Ho considerato le due opere come distinte, proprio perché hanno due linguaggi differenti. Sono molto soddisfatto del film come sono molto soddisfatto del romanzo. Sono mondi diversi con forme espressive diverse.  

Anche se molto personali, i suoi film sono inevitabilmente il frutto di un lavoro collettivo, che comporta la necessità di adattarsi a dei ritmi di equipe. La scrittura invece è privata. Come ha vissuto questo cambiamento, e che effetto ha avuto sulla storia?

Quando ho scritto il romanzo ero nel silenzio assoluto, da solo, e questo mi offriva la possibilità di scoprire le cose in un modo molto diretto. Era come se andassi a raccogliere dei fiori all’interno di una grande siepe, scovandoli uno per uno. Quando giro un film, proprio perché è un lavoro legato a un team, alla collaborazione con altre persone (e per questo è anche molto divertente), alla fine è come se ciascuno di quei fiori sbocciasse da solo. Ne sboccia prima uno, poi un altro, e io posso solo assecondarli. Quindi si crea sempre arte, ma con presupporti diversi: una è basata sulla mia ricerca nel dettaglio, mentre l’altra è una costruzione continua che nasce dalla cooperazione con gli altri. Quando ho scritto il romanzo, mi sono reso conto che più che soddisfazione per la costante ricerca, quello che provavo era felicità. Era qualcosa che volevo fare da tempo e venivo finalmente spronato a farlo. In questo senso mi sono sentito molto coinvolto.

Un altro elemento filmico che si va a perdere nella letteratura è il colore. Il film è permeato da un filtro blu che ovviamente la scrittura non può replicare. Come ha compensato questa mancanza? Quanto rilevante era per la creazione dell’atmosfera?

In realtà non ho avuto l’esigenza di tradurre quel tipo di cromatismo nel romanzo, perché a differenza del film ho voluto infondere di più le sensazioni ambientali. Come nel caso della pioggia, che ha diverse sfumature e può portare diverse emozioni. Può essere piacevole, quando si ascolta il suo suono, ma può anche portare paura, quando per esempio si infiltra in casa. Quindi nella fase del romanzo è stato più importante lavorare sull’ambiente, trasmettere gli odori, lo spazio esterno.

Non solo A Snake of June, ma tutto il suo cinema è permeato dallo studio del corpo umano, delle sue debolezze e delle sue forze. Di solito lei esprime la sua fisicità attraverso la macchina da presa, ma questa volta ha dovuto usare la forma astratta delle parole. Pensa di esserci riuscito? Come cambia lo studio del corpo quando non lo puoi mostrare?

Un serpente di giugno ha al centro tre personaggi, tutto ruota intorno a loro. Per scrivere il romanzo e trasmettere quel che loro percepiscono attraverso il loro corpo, ho dovuto calarmi in ciascuno dei tre. Per quanto riguarda la donna, io so di avere anche una componente femminile dentro di me. Quando ero ragazzo dicevo che se fossi rinato dopo la morte, avrei preferito rinascere donna. Quindi nel momento in cui ho descritto a parole quello che provava la protagonista, riuscivo a compenetrare la sua psicologia e la sensazione che lei aveva del suo stesso corpo. Per quanto riguarda il personaggio del marito, lui ha una serie di manie legate alla pulizia che sono sicuramente determinate anche dalla sua età più avanzata. Però riuscivo a capire e a percepire su me stesso questa sua ossessione, che è l’ossessione verso qualcosa di impuro che invade la sua casa, il suo spazio. Infine, ovviamente è stato molto facile comprendere il personaggio che nel film interpreto io stesso perché ho percepito da subito tutta la sua fragilità. Quindi mi sono calato nella fisicità dei miei personaggi uno alla volta per renderli attraverso le loro parole.

A Snake of June è un film con una forte matrice erotica, resa però tramite elementi impalpabili come la pioggia che bagna il corpo dei personaggi o la macchina fotografica, due elementi profondamenti visuali. Come riesce a evocare questo erotismo attraverso la parola?

È molto difficile rispondere a questa domanda, ma cercherò di farlo nel modo più onesto possibile riallacciandomi a quello che ho detto prima, ovvero al fatto che esiste una componente femminile in me. Per scrivere il romanzo ho cercato di calarmi anche nella componente erotica della protagonista e comprendere insieme a lei come si compone il suo corpo, che tipo di sensazione vuole provare, che cosa vuole sentire, come percepisce crescere in sé questa energia. È un processo diverso rispetto al film, ma in sostanza non credo ci siano grandi differenze nella resa di questo percorso di scoperta del corpo. Mi premeva come sempre rendere la contestualizzazione del corpo all’interno di un mondo tecnologico, freddo, dove non c’è un vero “sentire”. Rinko comincia a percepire la sua sessualità solo quando si lascia compenetrare dalla natura: la natura è parte della sua malattia, ma è anche simboleggiata dalla pioggia, e grazie a entrambi lei diventa consapevole del suo corpo, della natura che compone la sua carne. Da questo punto di vista non trovo differenze tra il romanzo e il film.

Nel film, Rinko è interpretata dalla bravissima Kurosawa Asuka. La sua fisicità è dominante, il suo corpo guida la narrazione. Ma la Rinko letteraria è sempre Kurosawa Asuka, oppure diventa un’entità astratta come tutti i personaggi dei romanzi?

L’interpretazione di Kurosawa è stata bellissima, ha incarnato il personaggio esattamente come io lo immaginavo, quindi nella scrittura del romanzo sono stato sicuramente influenzato dalla sua personalità. Al tempo stesso ci sono moltissime differenze tra lei e la donna che avevo in mente mentre scrivevo. Alcune di queste differenze sono puramente fisiche: nel film Kurosawa aveva i capelli molto corti, mentre nello scrivere il romanzo visualizzavo un tipo di donna dai capelli più folti, per esempio. Però ci sono anche molti punti di intersezione con l’interpretazione che vi ha dato Kurosawa. Per me era fondamentale in entrambi i casi che le due donne non fossero piccole e chiuse in se stesse, ma forti e risolute, con le spalle quadrate e le radici ben piantate per terra. Insomma, donne che avessero una forza già di loro.

A cosa si riferisce il serpente del titolo? Quale simbologia porta con sé?

In questo caso il serpente rappresenta una componente interiore della donna. Se da fuori sembra ligia e perfetta, di fatto c’è un serpente che le si agita nel petto e le crea delle turbolenze. Un serpente che deve contenere e opprimere all’interno di sé. In realtà quando ho usato questo termine per il film l’ho buttato lì di getto, senza pensarci troppo, ma questa è l’immagine che avevo in mente.

È interessante che il serpente porti con sé molti significati, almeno nella cultura occidentale. Pensiamo per esempio al Diavolo che prende le sembianze di un serpente per tentare gli uomini, o ancora al serpente come simbolo di rinascita e guarigione attorcigliato intorno al bastone di Asclepio. Non ci sono riferimenti simili nella cultura orientale?

È un’ipotesi estremamente interessante perché entrambe le interpretazioni sono molto adattate, anche se non volute. Mi piace il fatto che il serpente porti con sé aspetti positivi e negativi, visto che anche quella forza che si agita nel petto della protagonista ha in sé lati di luce e di ombra. Anche in Oriente il serpente trasmette molti significati sia positivi sia negativi, compreso quello della guarigione, perché il serpente viene utilizzato nella medicina cinese. Quindi questa doppia immagine è molto adeguata. In Giappone inoltre si dice che quando si sogna un posto pieno di serpenti accadrà qualcosa di bello. Esiste qualcosa di simile anche da voi?

Non conosciamo bene i significati dei sogni, ma non è un’immagine molto comune.  

In Giappone invece si dice ogni tanto.

Sente di essere influenzato nel suo cinema anche da alcuni autori letterari, romanzieri o anche mangaka?

Fin da quando ero giovane sono sempre stato un fervente lettore di romanzi e ho letto anche saltuariamente diversi manga, oltre ovviamente a vedere molti film, e sono convinto che tutto questo mi abbia influenzato. Per quanto riguarda strettamente il mondo della letteratura, potrei citare molti nomi di autori importanti, ma forse la scrittrice che più mi interessava era Ogawa Yoko. Non so dire esattamente quanto mi abbia influenzato, ma di sicuro ho apprezzato molto il suo modo di rappresentare la carnalità. Mi viene in mente la scena di uno dei suoi personaggi femminili che riconosce subito il mestiere di un uomo guardandogli solo le mani. Le sue mani sono la prima cosa che lei nota.

Grazie infinite per il tempo che ci ha dedicato. Prima di salutarci, può darci qualche anticipazione sui suoi progetti futuri?

Proprio in questo momento sto lavorando alla preparazione di un film che si colloca in qualche modo in continuità tematica con i due precedenti, Nobi e Zan. In questo caso la storia ha luogo nell’immediato dopoguerra, quando il Giappone è appena uscito dal conflitto ma la situazione è ancora quella del caos civile. Vorrei raccontare la storia del viaggio di un ragazzino in questo contesto in cui la guerra rappresenta ancora un peso. Sarà però un piccolo film indipendente girato con pochi soldi.

E a livello letterario?

Anche se ho sempre la speranza di scrivere un romanzo originale, purtroppo finisco sempre per fare film!

Intervista a cura di Anja Boato e Paolo Massimo Toti


Foto dell’autore concessa da Tsukamoto Shin’ya

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