La natura, la guerra, la memoria: Rigoni Stern e Fenoglio

Nella Trilogia dell’altipiano sono raggruppati tre romanzi di Rigoni Stern, usciti a molti anni di distanza l’uno dall’altro ma indissolubilmente legati per ambientazione, storia e personaggi: Storia di Tönle (1978), L’anno della vittoria (1985) e Le stagioni di Giacomo (1995). I tre romanzi sono ambientati nell’altipiano di Asiago, e ne seguono la storia dal 1866 al dicembre del 1941, momento che fa da apertura alla tematica bellica e, precisamente, alla ritirata dalla Russia che è stata narrata nel primo romanzo dell’autore, Il sergente nella neve (1953). In particolare, poi, Storia di Tönle rappresenta anche la prima volta in cui Rigoni Stern si discosta dalla narrativa propriamente di guerra, e compone un romanzo in cui sul tempo breve degli accidenti storici prevale il tempo lungo delle consuetudini ataviche[1], e dà inizio a un secondo filone della produzione dell’autore, quello che riguarda appunto la comunità dell’Altopiano, con la sua storia secolare, le sue tradizioni e le sue memorie.

È dunque possibile dividere idealmente l’opera di Rigoni Stern focalizzandosi su due diverse tematiche, una riguardante la seconda guerra mondiale, e l’altra riguardante la vita di una comunità residente in un’area geografica delimitata, e, tracciando un parallelismo, è possibile compiere la stessa operazione facendo riferimento alle opere di Fenoglio: da una parte i Racconti della guerra civile e i due romanzi Una questione privata e Il partigiano Johnny, dall’altra i Racconti del parentado e del paese e La malora. Da un punto di vista extratestuale è molto facile individuare delle differenze non irrilevanti tra le esperienze dei due autori: se per Rigoni Stern la guerra è vissuta da alpino in Albania e Russia, per Fenoglio coincide con la sua militanza partigiana; così come la vita dell’autore asiaghese è condotta interamente nei villaggi dell’altipiano, mentre il rapporto di Fenoglio con i paesi di langa è meno viscerale, essendo egli scrittore cittadino e adottando inevitabilmente uno sguardo più esterno. 

Tenendo in considerazione la produzione letteraria, e al netto delle similitudini tra i due autori – che inscenano storie e personaggi appartenenti a un periodo storico determinato, quello dell’Italia da inizio Novecento alla Seconda guerra mondiale, e ambientate in territori geograficamente delimitati –, si possono individuare almeno tre divergenze nell’approccio alla materia: nel rapporto con la natura e i luoghi, nella rappresentazione dello “scontro” (non solamente in senso bellico) e nella postura della voce narrante. 

Come scrive Affinati nel saggio introduttivo al Meridiano da lui curato, «per Mario Rigoni Stern l’Altipiano è vivo, palpabile, simile all’animale nella tana: non appartiene solo al passato, è anche presente e perfino futuro»[2]: la Trilogia si svolge nelle medesime contrade, ogni luogo ha le proprie caratteristiche che lo rendono ben distinto dagli altri, e di libro in libro è possibile riconoscere i medesimi spazi, che subiscono un’evoluzione temporale – come, ad esempio, la casa della famiglia di Matteo, ritrovata distrutta nel primo dopoguerra e ricostruita (L’anno della vittoria), che diventa poi la casa del fratello Giacomo (ne Le stagioni di Giacomo), comparendo anche nella cornice introduttiva del romanzo, a quasi cinquant’anni di distanza dagli eventi narrati. Le contrade, i pascoli e le valli sono descritti con l’accuratezza di chi abita e vive la montagna, raggiungendo quasi la precisione di una guida escursionistica nella resa spaziale e temporale delle distanze tra luogo e luogo. La ricerca dell’esattezza nella caratterizzazione geografica svolge nell’opera di Rigoni Stern una funzione importante tanto dal punto di vista geografico quanto da quello storico: il passaggio del tempo e le grandi guerre lasciano segni non solo sulla comunità umana, ma anche e soprattutto sull’ambiente in cui essa vive – i pascoli distrutti durante la prima guerra mondiale sono gli stessi in cui gli uomini del villaggio inizieranno l’attività di raccoglitori di proiettili e cartucce, e anche il luogo in cui viene costruito l’Ossario[3] inaugurato da Vittorio Emanuele III.

Tramandare la memoria per Rigoni Stern coincide con un’operazione di scrittura mitopoietica: i personaggi ricorrenti e le loro gesta accolte nello spazio limitato dell’Altipiano costituiscono una messa in scena in scala ridotta della civiltà umana, e quindi un’esemplificazione di tutta l’umanità. In quest’ottica, emerge la storia di una comunità che da sempre ha vissuto con solidarietà e in armonia con la natura, il cui unico elemento turbante è dato dalla guerra: guerra che è atto ed espressione dei potenti, a cui gli uomini e l’ambiente vengono sottomessi («Che belle parole, – disse il padre di Matteo. – La nostra terra, la nostra patria, le nostre case, la vittoria. La patria che pensa al nostro avvenire. Ma lassù la nostra patria è stata distrutta. Non c’è più. Loro dicono così perché non sanno e non hanno visto. Intanto che predicavano, a noi è morta una bambina. E non abbiamo niente; tutto ci ha portato via la loro patria»[4]). Al contempo, però, la guerra – in quanto espressione umana – è temporalmente limitata, e la ciclicità della natura porta a un ritorno all’ordine: sia Tönle, sia la famiglia di Matteo e Giacomo tornano alla propria patria montana, così come anche lo scrittore può fare ritorno alle sue montagne – tanto nella finzione quanto nella realtà (la cornice a Le stagioni di Giacomo concretizza all’interno del testo, che si conclude con l’inizio della guerra, proprio questo rientro a casa; così come vi è un rientro nel finale de Il sergente nella neve).

Nella rappresentazione storico-geografica fenogliana, invece, come scrive Corsini, «i luoghi descritti, come del resto le vicende narrate (anche quelle che partono da fatti di cronaca noti o, comunque, realmente accaduti), appaiono, in realtà, piuttosto come dei collages di elementi descrittivi e narrativi che la fantasia dell’autore traspone, con illimitata libertà, da un contesto all’altro, senza preoccupazione alcuna della cosiddetta realtà effettiva»[5]. Le Langhe, nell’opera di Fenoglio, non sono un ambiente geografico con una sua precisa identità storica, bensì un mondo che esiste solamente in quanto rappresentazione letteraria: il dato di partenza è, ovviamente, uno spazio reale, ma che assume valore solo nella sua funzione simbolica. L’operazione dell’autore non è quella di recupero della memoria e della microstoria locale, e la mitopoiesi si svolge in una dimensione atemporale. Sebbene La malora sia stato presentato da Vittorini come un epigono del verismo, il romanzo poco ha da dire sulla realtà socio-economica effettiva dei contadini delle Langhe nel primo Novecento, esattamente come le gesta partigiane (pensiamo anche alla storia di Milton in Una questione privata) sono collocate in un momento non definito della guerra civile. Il mondo langarolo della narrativa fenogliana è studiato per riflettere una visione cupa e al contempo eroica dell’esistenza, sulla scia del «vivere per la morte» heideggeriano che Fenoglio imparò in quanto alunno di Pietro Chiodi. Forte è anche l’influenza biblica[6], e riaffiorano soprattutto il tema della cacciata dall’Eden (Agostino cacciato dalla sua casa all’inizio de La Malora, che si chiude con il ritorno e l’immagine del melo), un’attitudine giobbica dei personaggi costretti a sopportare le continue sfortune, e anche le figure di Caino e Abele: il male non è, come la guerra in Rigoni Stern, un evento esterno alla comunità, ma interno – ad esempio, ne La Malora, sono il padre e il fratello di Agostino, con le loro azioni, a perdere i beni della famiglia e a costringerlo alle sue fatiche presso un’altra cascina; e, ancora, è l’amico fraterno Giorgio ad innescare la ricerca disperata della verità da parte di Milton in Una questione privata. L’epos cristiano, in Fenoglio, è coniugato all’epos classico: il conflitto, che è alla base della scrittura, non è solo quello «tra individuo e individuo; ma è anche, e molto di più, il conflitto del singolo con gli elementi naturali, il destino, la morte»[7]. Ciò significa che il rapporto con la natura non è di sintonia, e il mondo naturale non è un mondo idilliaco; se da una parte le Langhe vengono descritte come «un eden chiuso, protetto, simile al grembo materno»[8], al contempo sono un terreno di sfortuna e povertà («questa langa porca che ti piglia la pelle a montarla prima che a lavorarla»[9]), in cui l’elemento naturale più ricorrente sono i gorghi, mulinelli d’acqua che chiamano i personaggi verso la morte. Per quanto riguarda la rappresentazione letteraria del paesaggio, è utile aggiungere ancora un dato: in Rigoni Stern l’esattezza nella descrizione rende l’Altipiano uno spazio con le sue determinate caratteristiche, in cui l’uomo può vivere perché è ospitato dalla natura, ma che mantiene una sua autonomia – e dunque prevale l’idea che la natura sia autosufficiente e sussista anche in assenza dell’uomo; in Fenoglio, invece, i fenomeni naturali e il paesaggio svolgono la funzione – quasi, potremmo dire, “cinematografica” – di accompagnare l’azione e lo stato d’animo dei personaggi. Questo procedimento è ben evidente in Una questione privata, con la nebbia e la pioggia che si alternano e seguono la ricerca di Milton, o anche nei grandi diluvi degli incipit de La malora e del racconto Pioggia e la sposa, che sono correlativo oggettivo dei sentimenti provati dai rispettivi protagonisti.

Queste differenze nella rappresentazione letteraria dipendono dalla diversa postura che gli autori mantengono rispetto alle proprie narrazioni – in primis, nell’aspetto della temporalità. Rigoni Stern, come scrive Affinati, «è lo scrittore di una realtà storico-naturale appena trascorsa: come se cominciasse a comporre quando il sudore della fatica non ha ancora finito di asciugarsi sulla fronte […] a prescindere dal fatto che, rispetto agli eventi, siano trascorsi dieci minuti o cent’anni.»[10]

Questo aspetto è riscontrabile confrontando Storia di Tönle con Il sergente nella neve, che raccontano rispettivamente eventi accaduti nella comunità dell’Altipiano di fine Ottocento e inizio Novecento (e quindi una storia di cui lo scrittore ha conoscenza indiretta), e la ritirata di Russia a cui lo scrittore partecipa col ruolo di sergente, scritta a partire da appunti presi nel momento in cui gli eventi accadono: la distanza dell’autore rispetto alla narrazione sembra essere la medesima.

Al contrario, Fenoglio, citando Boggione, conduce una narrazione in cui «il passato remoto […] è il segno di un radicale distacco rispetto ai fatti, dell’assoluta loro mancanza di attualità», poiché «non è una vicenda nel suo divenire che lo scrittore vuole narrare, realisticamente facendo la cronaca di quanto in diebus illis»[11].

Come già riportato, Fenoglio colloca la base del mito nella sua atemporalità, e per farlo crea una distanza tra la guerra civile a cui realmente prende parte e il racconto che successivamente ne fa derivare. Se quindi Rigoni Stern riesce a creare una sorta di avvicinamento del narratore alla storia, Fenoglio compie l’operazione inversa, e anche in quei Racconti del contado e del paese – come, ad esempio, Superino o Un giorno di fuoco – in cui vi è una voce narrante in prima persona che assiste agli eventi, essa assume la postura dell’osservatore che è tanto più curioso quanto più si sente estraneo a ciò che accade e alla realtà in cui è inserito.

Dati gli elementi presi in considerazione, si potrebbe concludere che la distanza tra Fenoglio e Rigoni Stern è quella stessa che per Walter Benjamin distingue un romanziere e un narratore, che lo stesso Rigoni Stern cita in un’intervista a cura di Antonio Motta:

«Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita –; e la trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia. Il romanziere si è tirato in disparte. Il luogo di nascita del romanzo è l’individuo nel suo isolamento… Pur nella ricchezza della vita e nella rappresentazione di questa ricchezza, il romanzo attesta ed esprime il profondo disorientamento del vivere»[12].

Enrico Bormida

1 G. Alfano, Archivi silvestri. La temporalità dello spazio in Zanzotto e Rigoni Stern, in Compar(a)ison, 1, 2008, pp. 49-74.

2 E. Affinati, La responsabilità del sottufficiale, in M. Rigoni Stern, Storie dall’Altipiano, Mondadori, 2003, p. XXVII.

3 E proprio uno sciopero avvenuto nel periodo in cui Giacomo lavora all’ossario segnerà la condanna del ragazzo, che per questo motivo non verrà assegnato alla milizia forestale e agli alpini come i suoi compaesani, ma bensì arruolato in fanteria, morendo in un combattimento a Novo Orlowka, a cui gli alpini non presero parte.

4 M. Rigoni Stern, L’anno della vittoria, in Trilogia dell’Altipiano, Einaudi, 2010, p. 139.

5 E. Corsini, Paesaggio e natura in Fenoglio, in AA. VV., Beppe Fenoglio oggi, Mursia, 1991, p. 18.

6 Cfr. M. Sipione, Beppe Fenoglio e la Bibbia, Cesati, 2011.

7 V. Boggione, La sfortuna in favore, Marsilio, 2011, p. 13.

8 Ibid., p. 144.

9 B. Fenoglio, La malora, Einaudi, 1978, p. 14.

10 E. Affinati, La responsabilità del sottufficialecit., p. XXIX-XXX.

11 V. Boggione, La sfortuna in favorecit., p. 167.

12 A. Motta, Rigoni Stern, La nuova Italia, 1982, p. 11.

Immagine in evidenza: Giuseppe Pellizza da Volpedo, Valletta verde, 1891, GAM, Torino.

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