Cadossene è un’isola sospesa fuori dal tempo la cui società si basa su un ineluttabile rito di passaggio: quando arriva il momento, i figli devono portare al Monte i loro genitori e ucciderli con il randèll, il bastone rituale. Nessuno può sottrarsi al dovere dell’Adeu, neanche Eloi, il protagonista del romanzo d’esordio di Ignazio Caruso per Giulio Perrone Editore. Nonostante suo padre Nevio si prenda ancora quotidianamente cura di lui, quando arriva l’ora dell’Adeu il giovane deve assolvere il suo compito e intraprendere l’ultimo viaggio con il genitore.
Basato su un’antica leggenda della tradizione locale, il romanzo di Caruso evoca una Sardegna mitica e fuori dal tempo in cui il segreto dell’autarchia e dell’indipendenza sta nel liberare la società dai vecchi. Ne abbiamo discusso con l’autore.
Adeu racconta la tragicità del diventare adulti e per farlo sceglie un’ambientazione grandiosa e minuziosamente curata. Quale dei due aspetti è stato all’origine della progettazione di questo romanzo?
I.C. Quando cominci a scrivere il tuo primo romanzo, lo fai consapevole del fatto che non sai se verrà pubblicato. È una banalità, ma influenza molto l’atteggiamento, la motivazione, il perché decidi di sederti e sacrificare ore del tuo tempo che avresti potuto utilizzare in attività se non più redditizie, quantomeno più divertenti. Dico questo perché è inevitabile che la voglia (non parlerei di esigenza) di scrivere arrivi solo se dentro di te esistono delle crepe, delle inconsolabili fratture che ti portano a farlo. È, dunque, partito tutto da questi vuoti, dagli enigmi che la vita ci mette davanti, dalla rabbia che proviamo nell’assistere impotenti al suo dispiegarsi. L’ambientazione è arrivata dopo e, come spesso accade, mi sono ritrovato a immaginare un mondo narrativo totalmente funzionale alla storia che volevo raccontare. È stata una fase di ricerca storica, antropologica e religiosa, quella che ha portato alla creazione di Cadossene, l’isola dove i giovani uccidono i vecchi.
La tensione tra Eloi e suo padre Nevio cresce in Adeu pagina dopo pagina: l’impossibilità che entrambi continuino a esistere emerge molto chiaramente e il compito di Eloi finisce per apparire inevitabile a chi legge. Come hai lavorato per bilanciare l’amore e il rancore nel loro rapporto?
I.C. La tensione che ho cercato di ricreare in Adeu è quella vuota e metafisica che si avverte, per esempio, davanti alle piazze deserte di De Chirico: il silenzio prima della battaglia, la quiete prima della tempesta. Eloi e Nevio vivono infatti una vita immobile ed Eloi, da figlio, si illude che questa loro condizione possa durare in eterno. Sono diversi i fattori che lo costringono a rivedere la propria convinzione, alcuni di questi sono forze esterne, come le leggi della República e quelle degli Dèi, ma c’è anche una forza interna, quella preponderante, che è la componente innata dell’istinto, contro la quale anche il padre deve lottare. Eloi e Nevio vivono logorati dall’impossibilità di conciliare ragione e impulso, amore ed egoismo. Perché la vita è, alla fine, uno sforzo continuo di sopravvivenza.
La Cadossene in cui è ambientato Adeu è una Repubblica autoritaria alla quale nessuno ha il coraggio o la volontà di ribellarsi. Le sue leggi sono accettate come condizione necessaria per la vita condivisa e i tuoi personaggi, se pur tormentati, non pensano mai di metterle in discussione. Per l’obbedienza cieca e fiduciosa che ispira, Cadossene non mi è sembrata troppo diversa da uno Stato-padre: eppure la Repubblica si fonda proprio sull’emancipazione forzata dai padri (e dalle madri). I giovani di Cadossene si liberano del giogo dei genitori solo per sottomettersi allo Stato?
I.C. In mondi narrativi simili, spesso distopici (penso all’Oceania di Winston Smith o alla Gilead di Difred), solitamente i protagonisti si ribellano, o tentano di farlo, allo Stato autoritario che li opprime. A Cadossene non avviene niente di tutto questo, perlomeno all’apparenza. L’uccisione dei genitori da parte dei figli è visto come un fatto ineluttabile; chiedere a un giovane di Cadossene di ribellarsi a questo destino sarebbe quindi come chiedere a qualcuno del nostro mondo di ribellarsi alla morte. Semplicemente, non è possibile. I protagonisti di Adeu ne sono consapevoli e lungo tutto il romanzo si avverte un senso di impotenza che è quello che proviamo spesso davanti alle sovrastrutture politiche e religiose.
Nell’ultimo periodo diverse novità editoriali hanno contribuito a costruire una narrazione intorno alla generazione dei trentenni di oggi: precariato, oppressione da parte di un sistema che sembra costruito su misura per i vecchi, inettitudine davanti alle sfide della vita sono stati spesso raccontati attraverso la letteratura di genere. Definiresti Adeu un romanzo distopico? Cosa rende questo genere uno strumento tanto efficace per raccontare il presente?
I.C. Capisco suggestioni e criteri per i quali Adeu potrebbe essere definito un romanzo distopico, ma non condivido questa affermazione per diversi motivi. In primo luogo, più che una distopia, il mondo del romanzo rappresenta più che altro una ucronia: un’isola in cui il cristianesimo non si è mai diffuso e ancora si pratica l’antico rito del geronticidio. Secondo aspetto: manca quell’intento speculativo che caratterizza solitamente il genere: la ricetta di prendere un germe presente all’interno della società, aumentare la sua portata fino a renderla dominante, scoprire dunque cosa succederebbe se… non è il motivo per cui è stato scritto; direi, anzi, che l’effetto è quello opposto: quanti trentenni (me compreso) hanno additato (spesso giustamente) le generazioni precedenti come principali responsabili dei propri fallimenti? Ecco, proviamo a ribaltare la situazione. Proviamo a ucciderli, questi vecchi: vediamo cosa succede. E dunque, più di ogni altra cosa, Adeu è un romanzo di avventura, un’avventura vissuta da padre e figlio, due disgraziati come tanti alle prese con gli imbrogli della vita.
Il tuo romanzo porta all’estremo uno dei topos letterari più noti della storia: l’uccisione del padre. Quali sono stati i tuoi modelli di ispirazione per costruire il rapporto controverso tra Eloi e Nevio?
I.C. La storia della letteratura e del mito tracima di esempi che vedono un rapporto conflittuale tra padre e figlio, spesso e volentieri a causa dei comportamenti del primo, o anche solo della sua presenza. Il parricidio, sia esso reale o metaforico, viene visto quindi come una sorta di liberazione. Il fatto è che Nevio è stato, a tutti gli effetti, un ottimo padre: ha cresciuto un figlio da solo cercando, per quanto gli fosse possibile, di non fargli mancare niente. Nevio si è già, nei fatti, sacrificato per il figlio, rinunciando a vivere del tutto la sua vita. La riluttanza di Eloi a compiere ciò che gli viene imposto di compiere sta anche in questo, nella riconoscenza e nell’amore che prova verso il padre. Se proprio dovessi citare un modello, che ha più che altro a che vedere con le sensazioni trasmesse, uscirei dalla letteratura e citerei l’episodio “Come una regina” de I nuovi mostri, in cui Franchino (Alberto Sordi) decide, stimolato dalla moglie, di portare l’anziana madre in un ospizio.
Adeu è il tuo primo romanzo, ma non il tuo primo approccio al mondo editoriale e culturale: in che modo la militanza nelle riviste e nei festival letterari ha formato e influenzato la tua carriera di scrittore?
I.C. Ho sempre avuto un senso di pudore, un forte disagio nel dire, anche solo nel pensare: «voglio fare lo scrittore». In tutta sincerità, essere definito così ancora mi imbarazza, per cui vivo ogni esperienza nel mondo editoriale come qualcosa di cui essere grato. Tuttavia, entrare in punta di piedi nell’ambiente dell’editoria, tentare di farlo con un approccio professionale, mi ha permesso di sfatare quella visione romantica da ingenuo aspirante scrittore di provincia. Così mi è capitato di leggere libri che altrimenti non avrei mai letto, di scoprire autori che non avrei mai intercettato, di scrivere o presentare romanzi che mi hanno fatto pensare «ma dove accidenti voglio andare», e altri invece la cui mediocrità mi ha incoraggiato («beh, se pubblicano questo…»). Ma soprattutto, lavorare per un pubblico, sia dal vivo che sulla pagina o sullo schermo, mi ha insegnato che l’attenzione degli altri è un bene prezioso, e che non bisogna abusarne. Per cui ti ringrazio, e mi fermo qui.
a cura di Loreta Minutilli
in copertina: Foto di Klaus Dieter vom Wangenheim da Pixabay