Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo, Tommaso Di Dio
(Scalpendi, 2022)
«[…]
mentre scrivevo mentre sognavo di scrivere ciò che scrivevo,
ricordo
scrivevo per voi
scrivevo di voi […]»
In uno dei testi in prosa del suo libro, Tommaso Di Dio, dopo averci mostrato una riproduzione di Pieter Bruegel il Vecchio, Cacciatori nella neve, del 1565, osservando bene l’immagine ci fa notare che c’è un uomo nella neve – un puntino scuro ai nostri occhi –, lontano dagli altri e che, a differenza degli altri, non è coinvolto in nessuna azione, almeno apparentemente. Gli altri giocano, lavorano, mostrano chiaramente degli intenti, mentre l’uomo-puntino solitario sembra vagare sperduto nel nulla, ma «anche lui è nel mezzo di qualcosa» dice Di Dio, anche lui «ha il suo vento, il suo passo». «Dietro di sé e davanti […] non gli rimangono che due, stretti, laghi di ghiaccio. È tutto ciò che ha». Così Di Dio in Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo, edito da Scalpendi, ci racconta del suo vento, dei laghi di ghiaccio che lo hanno circondato, lo circondano e lo circonderanno.
La raccolta è un archivio della produzione poetica di Di Dio dal 2003 al 2020, con testi inediti, editi ed estrapolati da antologie condivise con altri autori o sillogi proprie. Il tutto è decorato da foto di famiglia, foto d’archivio, il dipinto di Bruegel (appunto) proviene da una delle “descrizioni”, ovvero brevi composizioni in prosa dove Di Dio racconta una fase o un’illuminazione di un certo periodo, che spesso faranno da introduzione alle poesie del libro.
Solitamente libri di questo genere sono curati da una persona diversa dal poeta (trattandosi spesso di poeti deceduti o molto anziani), per questo, al loro interno, nonostante ci sia una scelta cronologica raffinata ed esperta, si sente l’influenza del curatore. In questo caso, invece, il problema non si pone poiché è lo stesso Di Dio a fare una ricerca poetica su stesso, compiendo una scelta audace ed estremamente ben riuscita.
Di Dio indaga il concetto di memoria e quello di identità, generando un equilibrio sospeso, come se a raccontarsi non fosse lui stesso ma un occhio vigile e sensibile che cerca di capire qualcun altro, con lo stesso amore e la stessa pazienza di un genitore.
È quindi nella composizione generale, nelle evoluzioni tra una poesia e l’altra che si trova tutto il suo poetico.
La cifra stilistica, nonostante gli anni che separano alcuni testi dagli altri, è sempre molto riconoscibile, con il verso libero, l’interesse per la chiusura netta, come un punto di vista dapprima generale che poi tende a focalizzarsi su un punto d’interesse, e poi termina il componimento con decisione sul nodo che il poeta vuole esulare dal resto.
I temi variano negli anni per poi, però, ricorrere periodicamente; in particolare il tema dell’amore, verso una persona o verso la poesia stessa, materia mai del tutto conoscibile.
Sembrerà banale, ma la raccolta intera è colma d’amore; amore per il prossimo, per la vita, per il tempo inesorabile. Paradossalmente, rispetto ad altri poeti, sembra che il Di Dio più adulto sia più disposto ad amare rispetto a quello giovanile; sembra abbia una disposizione sempre maggiore verso il prossimo. Da sottolineare, in questo contesto, le poesie scritte per i bambini del reparto di neonatologia dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, che risaltano proprio questa attenzione verso la vita e l’essere vivente nella sua totalità.
In Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo le cose accadono, non vengono solo restituite per quello che sono state. Non mi stupirebbe se Di Dio, rileggendo il suo libro una volta composto di tutti i suoi capitoli, non fosse rimasto colpito dalla posizione in cui ha messo quel testo piuttosto che l’altro; e del fatto che ha scelto di mettere lì, in quel capitolo, proprio quel testo. Ciò che voglio dire, più semplicemente, è che Di Dio ha aperto uno scorcio sulla possibilità di riscoprire la poesia come strumento di narrazione che possa raccontare al contempo sia una vita (parte di una vita nel caso Di Dio che è piuttosto giovane) sia un’opera – e in questo caso vita e opera coincidono.
Il libro mi ha ricordato uno di quei film d’animazione giapponese dove tutto è disegnato dall’autore, dal piccolo dettaglio nello sfondo dell’immagine al protagonista in primo piano. Lo ricorda, inoltre, per la narrazione composita di tutti gli elementi presenti nell’immagine. Immagini che mantengono un misticismo, un realismo magico che tende a essere compreso solo verso la fine, quando lo spettatore può ricomporre tutti i pezzi. Le “descrizioni” di Di Dio in questo caso le vedo come l’ambientazione, uguale per le foto e gli inserti visivi; le poesie come i dialoghi, le azioni e gli avvenimenti; il poeta come uno dei protagonisti.
Con quest’opera Di Dio ci offre la possibilità di entrare nella vita di un bambino, poi di un ragazzo e infine di un uomo, di ripensare alla nostra evoluzione negli anni, e così anche alle nostre contraddizioni.
Unendo il passato al presente, Di Dio si pone come “iperoggetto” nella propria storia. Lui stesso diventa una sorta di iper-poeta, che più che scrivere, oggi, attinge, mischia, osserva. E così, con apparente semplicità, ci lega alla sua storia, ovvero la storia di tutti.
«Questa che tu ora vedi
è un’immagine. Mi chiedo ora dov’è
questa immagine.E tu dove sei, mentre l’immagine
è sulla pagina o sugli schermi
perduta, catafratta, fra mille
milioni immagini pixel, esplosi megabyte mentre tu seie così trapassi.
Questo
nella tua storia dov’è, dov’èin quale immagine.»
Vittorio Parpaglioni
Immagine in evidenza: Pittura a Olio, Pieter Bruegel del Sambuco. https://pixabay.com/it/photos/pittura-a-olio-74060/