Il peso dell’invisibile: Il male che non c’è di Giulia Caminito

Il male che non c’è, Giulia Caminito
(Bompiani, 2024)

Il male che non c’è di Giulia Caminito, pubblicato da Bompiani a settembre 2024, è il secondo volume di un’immaginaria Trilogia della Negazione, contraddistinta dalla presenza del “non” nei titoli. A confermarlo è l’autrice, vincitrice del Premio Campiello e finalista al Premio Strega nel 2021 con L’acqua del lago non è mai dolce.
Nel suo ultimo romanzo Giulia Caminito ci conduce in un percorso intenso e spietato dentro la psiche di Loris, trentenne, segnato da un dolore che nessuno, nemmeno lui stesso, riesce a comprendere appieno.

Ma qual è il male che non c’è? Già dall’incipit capiamo di trovarci di fronte a un protagonista ipocondriaco, con tutto ciò che ne consegue. Loris è steso sul pavimento del bagno, dolorante, con i muscoli intorpiditi, sprovvisto del cellulare per cercare i sintomi su Google. Ecco il primo ritratto del personaggio, sempre alla ricerca di un male che poi alla fine si rivela inesistente.

«Loris si chiede con insistenza cosa sia quel male, quanti organi compressi e limitrofi ci siano nel suo corpo, in che punto sia il fegato, fin dove s’allunghi l’appendice, quale sia il lato della milza».

Eppure un male c’è, anche se non si vede, anche se sfugge a una diagnosi. È un’angoscia che si muove tra corpo e mente e che lascia segni palpabili. Il dolore di Loris è fisico, tangibile, una sofferenza che si insedia nelle viscere e si manifesta con una forza incontrollabile, ma è evidente che le sue radici affondano nella sfera emotiva e psichica, dove permane sotto forma di ossessioni e pensieri intrusivi.

«Loris ne è certo: il suo male c’è, sta solo zitto, acquattato a dovere, nei cespugli, a contatto col muschio, mimetizzato tra l’asparago selvatico e il pungitopo, per non uscire allo scoperto». 

Sin da subito viene introdotto il personaggio di Catastrofe, una figura surreale che incarna le paure più profonde di Loris e che conferisce al testo una dimensione simbolica, quasi onirica, dando voce ai dubbi che assillano il protagonista. Catastrofe è uno spettro che lo osserva, lo sfida, lo invade, una presenza che si insinua nei momenti di solitudine e che lo accompagna come un’amica fedele, ricordandogli di continuo la sua vulnerabilità.

«Catastrofe gli indica dove è opportuno sentire dolore e Loris lancia un grido stridulo, avverte il pompare del muscolo cardiaco fino alle tempie, il respiro è mozzo, le vibrazioni arrivano alle unghie».

Se nella prima scena c’è Catastrofe insieme a Loris in bagno, fuori dalla porta c’è Jo, la fidanzata di Loris, che non riesce a comprendere la natura del suo malessere e tende a minimizzare le sue preoccupazioni. Jo viene dipinta come risoluta, ginnica, ambiziosa, libera: tutto ciò che Loris non è.

«Lui non ne può più di doversi confrontare con loro, con gli altri, con tutti, per ciò che non è in grado di essere».

La presenza di Jo non fa che sbattergli di continuo in faccia sua inettitudine, rendendolo nel contempo dipendente da lei e dal loro rapporto. Una relazione iniziata da ragazzini con le migliori premesse, adesso stantia e marcia: manca di comunicabilità, di connessione, con la conseguenza che Loris si sente sempre più isolato e incompreso.

«Sono molti anni che Jo esiste nella sua vita, ma sono anche molti mesi che non esiste più, lo va a trovare, dorme con lui, ma è come se già fosse divertita, con la mente altrove, il passo in direzione contraria. […] Jo da sempre intendeva viaggiare e adesso più che mai voleva smetterla di stare chiusa in ufficio, desiderava portarlo con sé, ma Loris non era più portabile».

Il male di Loris è anche un male anagrafico, proprio della generazione dei Millennial, quelli in mezzo tra il vecchio e il nuovo, tra i Boomer e la Gen Z, quelli che hanno vissuto dall’inizio alla fine il passaggio tra analogico e digitale. Da una parte sottoposti alle pressioni dei genitori all’antica, ossessionati dal posto fisso e dalla stabilità economica; dall’altra catapultati in un mondo che gira troppo veloce per chi ha vissuto l’infanzia negli anni Ottanta e Novanta, che dà importanza al work-life balance, alla salute mentale, allo scegliersi a tutti costi il lavoro che piace e non quello che assicura uno stipendio. In ogni caso, non ascoltati, non visti, non compresi, alla costante ricerca di un’identità. Loris ha trent’anni, è uno stagista in una casa editrice, dovrebbe guadagnare seicento euro al mese, ma non gli danno neanche quelli. Non riesce a mantenersi da solo, chiede i soldi per l’affitto al padre Sandro, che glielo fa pesare a ogni pranzo della domenica.

«Non è legittimo chiedere se lo pagano? C’ha trent’anni, e quanto starà al servizio per questa gente? […] Passi le mattinate a lavorare tra tante virgolette, spendi soldi in libri, con tutti quelli che già hai, per far guadagnare gente che non ti dà stipendio, e io intanto pago. È giusto? Dimmi».

Loris potrebbe cercarsi un lavoro qualunque mentre cerca di sfondare nell’editoria, ma non lo fa. Si autocommisera, si rinchiude nei libri, nelle ossessioni, nella memoria, incapace di affrontare la realtà, accartocciato su di sé nel tentativo di trovare un contatto umano in grado di capire e accettare la sua complessità. Il desiderio di essere riconosciuto per ciò che è, con tutte le sue imperfezioni e insicurezze, diventa una richiesta d’aiuto che si perde però in un silenzio assordante, in una voragine vuota e oscura dentro cui Loris sprofonda.

«Loris non riesce a mollare l’angoscia che lo ha assalito, quella che non si stacca mai dal suo corpo. L’angoscia di essere sé stesso». 

L’unico sollievo sembra derivare dai ricordi d’infanzia insieme al nonno Tempesta, morto da anni, vissuto in Africa ai tempi del colonialismo, un uomo sui generis, ricco di aneddoti e avventure da raccontare.

«Quando da bambino dovevano fargli le punture sul sedere, mentre nonna Gemma preparava la siringa, Tempesta era costretto a stargli vicino per distrarlo. Allora gli raccontava di quando al porto di Massaua aveva corso così tanto per prendere una nave e alla fine l’aveva persa ma il suo cane era caduto in acqua e lui dietro con tutta la valigia, e imitava i guaiti del cane e poi mimava il nuoto e raccontava il caldo che c’era al porto e la nonna Gemma che era attraccata anche lei in quel momento – lei arrivava, lui doveva partire –, si erano incontrati così, Tempesta tutto bagnato, Gemma vestita troppo pesante per l’Africa.».

Con la prosa cruda e densa che la caratterizza, Giulia Caminito riesce a tradurre in parole l’angoscia, il peso del corpo che non risponde, l’agonia di un dolore che non trova sollievo. Costruisce immagini potenti che portano il lettore a immedesimarsi nelle sensazioni del protagonista, come se il suo male diventasse palpabile, come se ogni parola andasse a premere su una ferita aperta. Esplora con coraggio e profondità i confini sottili tra dolore fisico e mentale, tra reale e immaginario, tra quello che vediamo e quello che preferiamo non vedere. Una lettura che scuote e commuove, capace di mettere a nudo le nostre vulnerabilità e il bisogno incessante di trovare un luogo, un volto, una presenza che ci faccia sentire meno soli.

Marta Grima

(immagine in evidenza: Canva)

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