Precipitare a Portofino, riaffiorare in “Portofino blues”

Portofino blues, Valerio Aiolli
(Voland, 2025)

Una villa misteriosa sospesa su un incantevole borgo marinaro, la morte violenta di una contessa bellissima non più nel fiore degli anni, una corte di amanti ed ex amanti, uno stuolo di servitori e un tesoro nascosto. Sembrano gli ingredienti del giallo perfetto, e in effetti lo sono, ma il libro che li aggrega, Portofino blues, non è solo un giallo. Tra le pagine incontriamo luoghi e personaggi realmente esistiti ed esistenti: la villa misteriosa si chiama Villa Altachiara, la contessa aveva un nome, Francesca Vacca Graffagni Agusta, e per anni è stata regina scatenata della mondanità italiana. Intorno a lei, agli uomini che ha amato, ai luoghi che ha abitato si sono stretti alcuni dei nodi cruciali della storia dell’Italia del secondo dopoguerra, di cui l’autore Valerio Aiolli rende conto. Cosicché Portofino blues appare come un oggetto letterario stratificato, composito e multiforme dove, quello del giallo, è solo uno dei piani di lettura possibili.

La contessa Vacca Agusta, nata nel 1942, è precipitata nelle acque di Portofino (il borgo incantevole), la sera dell’8 gennaio 2001. Il suo cadavere è stato ritrovato quattordici giorni più tardi sulle rive della Costa Azzurra. Valerio Aiolli, in Portofino blues – edito da Voland, semifinalista al Premio Strega 2025 – fa tornare a galla questo caso. Il primo, sottolinea lo scrittore, complice la notorietà della vittima, a ottenere la vastissima copertura mediatica che negli anni successivi sarà dedicata anche ad altri fatti di cronaca nera – da Garlasco ad Avetrana –, inaugurando in Italia un nuovo modo di raccontare e lasciar trapelare la dimensione del crimine.

La penna di Aiolli si addentra nelle stanze di Villa Altachiara e ricostruisce l’ultimo giorno della contessa sulla base delle testimonianze dei presenti e, in parte, dell’immaginazione. Attraverso una fitta rete di pensieri retrospettivi di Francesca, a cui «capita di pensare, quasi di gridare nel pensiero, quando i ricordi diventano realtà», Aiolli racconta la vita di Vacca Agusta e dei suoi tre grandi amori, sostenuto da un solido lavoro di ricerca. La giovinezza a Milano negli anni ’60, della cui «energia selvaggia», con i suoi capelli rosso tiziano, Francesca era l’incarnazione. «Bellissima, simpaticissima, sboccatissima» (p. 190), ammaliava chiunque, soprattutto gli uomini ricchi (quando lei, in origine, non era né ricca né contessa). Sposa uno di loro, il conte Corrado Agusta, magnate dell’imprenditoria, titolare insieme ai fratelli dell’omonima azienda aeronautica, la prima in Italia ad avere la licenza di costruire elicotteri.

Francesca vive anni entusiasmanti nelle ville «d’avorio» del conte in giro per il mondo, da Portofino a Cuernavaca – «la vita per cui era nata» (p. 238). In seguito, la separazione tempestosa da Corrado, da cui ottiene Villa Altachiara, e il nuovo amore per Maurizio Raggio, figlio del fondatore della Gritta, famoso locale di Portofino, punto d’approdo della «crema del capitalismo e dell’imperialismo europeo» (p. 51), tra cui Bettino Craxi.
Per la sua dimestichezza con gli affari, Raggio diviene pupillo di Craxi e finisce nello scandalo di Tangentopoli. Emesso un mandato di cattura da Antonio Di Pietro, le cui parole sono più volte incastonate nella narrazione, Maurizio e Francesca scappano in Messico, conducendo un’esistenza da banditi di alto bordo fino al momento dell’arresto.

Intanto tra i due il rapporto si deteriora e lei conosce Tirso Chazaro, un messicano con la passione per «l’amore romantico e disperato» (p. 88). Tornata a Portofino dopo un periodo di detenzione è con Tirso e Susanna Torretta, giovane amica del cuore, che trascorre gli ultimi tempi della sua vita, mentre Maurizio rimane nella dépendance della villa (di cui gestisce le spese e le battaglie legali). Altachiara, un tempo teatro della sua bellezza e ricchezza, diviene per Francesca una gabbia dorata dove lotta per «non cedere alle forze oscure che la circondavano, prima fra tutte la forza di gravità, che spingeva tutto verso il basso, verso il vuoto» (p. 310), sempre più assuefatta a varie forme di sostanze. Fino all’ultima passeggiata in giardino in stato fortemente alterato.

Esistenze piuttosto romanzesche, dunque. Aiolli sembra giocare con questo aspetto quando le assimila a quelle di personaggi letterari celebri:

«Nel periodo d’oro le feste a Villa Altachiara duravano anche fino al mattino. Gli abitanti del borgo andavano a dormire con le luci accese lassù, e il sottofondo dei bassi pulsanti a cullarne le teste sui cuscini. Chi era il Grande Gatsby, Corradino che si sforzava di far colpo ogni giorno di più su quel suo amore così giovane e incontenibile? O Francesca, che nascondeva in sé il destino tragico di una diversità irredimibile?» (p. 255).

In effetti, i rapporti di forza tra tutte le figure che gravitano intorno a Francesca (dagli amanti alle amiche ai domestici) sono sempre sull’orlo di ribaltarsi, o, potremmo dire, intrinsecamente ancipiti. Aiolli, senza mai indulgere in didascalismi, restituisce in modo molto acuto la dialettica servo-padrone che regola queste relazioni. La riflessione implicita sulle dinamiche di potere è uno dei risvolti tematici più interessanti di Portofino blues.

Aiolli non si limita a «districarsi nelle correnti gelide o bollenti dei sentimenti e dei risentimenti che percorrono i corridoi della villa» (p. 67), nei capitoli intitolati Dentro, e a riportare le dinamiche delle indagini e della risonanza mediatica del caso (nei capitoli Fuori). Nel ritrarre queste figure lo scrittore apre molte digressioni sulla storia politica, industriale, di costume italiana, spesso gustosissime, combinando materiali, stili, ritmi, regimi di verità, punti di vista eterogenei: frammenti di interviste, sentenze giudiziarie, perizie, estratti di articoli di cronaca ed ecfrasi di fotografie si susseguono a stretto giro. Per lasciar spazio, di tanto in tanto, in maniera vertiginosa, a momenti di introspezione che tentano di penetrare gli angoli più intimi – non documentati – dei soggetti.

La costruzione di Portofino blues, in questo modo, assomiglia a quella di un mosaico. Aiolli accosta tessere diverse tra loro – per colore, forma, dimensione – senza però mai perdere di vista il disegno generale. È nella maniera in cui giustappone i tasselli – fuor di metafora: nel modo in cui tende fili sottilissimi ma tenaci tra un paragrafo e l’altro – che si dispiega uno degli aspetti più raffinati della sua tecnica narrativa.

Portofino blues inizia a qualche centinaio di metri da terra. Aiolli, che prende parola all’esordio e alla fine del libro, si trova a bordo di un elicottero, e ha paura del vuoto. È un incipit rivelatorio: in qualche modo, tutte le persone implicate nel racconto sperimentano la vertigine dell’altezza, metaforica e fisica – vertici di potere, vette che espongono al baratro. Anche noi lettrici e lettori proviamo qualcosa di simile, ma protetti. Ci affacciamo a questa storia di fughe rocambolesche, feste senza fine, droghe, scandali, ricchezze e solitudini immani per poi ritrarci. Non senza aver provato un certo piacere nell’aver sbirciato così a lungo in vite che non sono le nostre, ma che hanno in parte simboleggiato alcuni momenti clou del passato prossimo di un Paese che è anche il nostro.

Ginevra Portalupi Papa

(immagine in evidenza di Archie McNicol da Pexels)

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