Un luogo soleggiato per gente ombrosa,
Mariana Enriquez
(Marsilio, 2025 – trad. Fabio Cremonesi)
Un luogo soleggiato per gente ombrosa è l’ultima raccolta di racconti di Mariana Enriquez, autrice argentina nota per le tenebre vischiose in cui intinge la penna e affoga i suoi personaggi, tanto da essersi meritata paragoni con i maestri del genere gotico e horror come Edgar Allan Poe ed Ernst T. A. Hoffmann.
Come nella precedente raccolta che l’aveva vista insediarsi nel solco di quel genere (I pericoli di fumare a letto, Marsilio, 2023) Mariana Enriquez si riconferma beatamente a suo agio con un gotico rivisitato e ammodernato.
Vi si ritrovano certo tutti gli stilemi più classici: fantasmi che cercano affannosamente vendetta, o quantomeno riscatto; case che sembrano infestate da presenze sinistre, tangibili quanto nuovi inquilini; maledizioni che viaggiano tra le generazioni, propagandosi con la virulenza contagiosa di un’infezione. Ma questi topoi congeniti a un certo tipo di genere gotico – quello, in particolare, che vira verso l’horror appropriandosi di parecchie sue sanguinolente esuberanze – una volta imbevutisi nell’immaginario della Enriquez diventano qualcosa d’altro: l’autrice li fa traslocare nel presente e li sguinzaglia nel mondo, installandoli in un universo narrativo tutto contemporaneo.
Per esempio, in molti dei racconti è presente – sullo sfondo o in primo piano – la città, coi suoi casermoni popolari, gli appartamenti addossati gli uni agli altri in condomini affollati come alveari, gli edifici abbandonati e scrostati che hanno perso il loro iconico sfarzo.
Le rappresentazioni urbane di Enriquez tendono a evidenziare soprattutto ingiustizie e crepe delle città argentine che descrive, talvolta in maniera esplicita, altre volte con fare subliminale e sottinteso (un solo racconto – quello che dà il titolo alla raccolta – è invece ambientato a New York, altra metropoli attraversata da contraddizioni).
A proposito delle città crepate dai contrasti e periferie abbruttite dall’incuria, vale la pena citare il racconto Il cimitero dei frigoriferi, in cui una discarica di elettrodomestici diviene il luogo del gesto crudele e indimenticabile di alcuni bambini che giocano a rincorrersi tra carcasse di frigo dismessi. A narrare la storia è la donna adulta che, memore della sua incancellabile colpa bambina, nel tornare sul posto si prepara a incontrare i suoi stessi fantasmi.
In un altro racconto, La donna che soffre, la protagonista – in preda a un’allucinazione che le assale progressivamente tutti i sensi – si convince di abitare abusivamente in quella che in realtà è la casa di una giovane donna malata di cancro. Si badi bene: non la sfiora nemmeno il sospetto che sia la presenza dello spettro a essere fuori luogo o invadente.
A furia di sentirla urlare dal dolore in modo così lancinante e vicino, conclude piuttosto che quello sia il luogo scelto dalla donna che soffre per morire. La protagonista stessa, perciò, finisce per sentirsi un’estranea e un’intrusa in casa propria.
Se nel caso dei manufatti narrativi di Mariana Enriquez si può parlare di un certo realismo magico di ascendenza latino-americana, il suo è però un realismo magico orrorifico, maledetto. Per i suoi personaggi è del tutto ordinario quello che, razionalmente, saremmo propensi a ritenere soprannaturale; nell’esperienza di chi legge ciò si traduce in uno straniamento costante, una sorta di suspension of disbelief allucinata; forse, per muoversi nell’universo narrativo della Enriquez, il patto è questo: essere disposti a concepire come concreti, e mai irreali, gli incubi spaventosi che mette in scena.
E ancora, a proposito di questa forma di assuefazione a una magia nera che s’infiltra nella realtà, penso alla donna protagonista de I miei tristi morti, che non trova affatto anomala la sua capacità di vedere sua madre morta aggirarsi per le stanze della casa, né si lascia inquietare dalle visioni di altri morti che pure le fanno visita. Compresa anzi la natura del suo ruolo, si dice che quello che le tocca è proprio un incarico, una missione: «Tutti loro, i miei morti tristi, sono una mia responsabilità».
La realtà descritta, pur quando in superficie parrebbe normale e ordinaria, a un’occhiata più approfondita svela invece la sua mostruosa deteriorabilità, come il volto della protagonista bambina di cui si ascolta la triste voce ne Gli uccelli della notte:
«Nessuno sa bene come chiamarla, ma ho una malattia il cui sintomo principale è che la pelle marcisce, come se fossi morta. Per fortuna non puzza, è impressionante solo l’aspetto grigio-verde, di tanto in tanto la pelle cade, lascio in giro per casa brandelli di me. […] Se esco, quando qualcuno mi vede, reagisce come quei ragazzini, con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata; non sono abituati a vedere una testa senza capelli, con qualche vermetto, il labbro inferiore cadente perché i miei muscoli non hanno la forza per tenerlo al suo posto, l’occhio destro completamente nero come uno scarabeo o come quelli delle femmine degli uccelli» (p. 35)
Come da questo passo si può saggiare, la lettura procede attraverso i passi di danza di una prosa elegantemente espressionistica, che si serve spesso di descrizioni raccapriccianti o iperboliche e che sceglie sempre di affidare la storia a un ‘io’, stratagemma retorico quantomai coinvolgente.
Con l’aiuto di queste strategie stilistiche, l’autrice riesce a rendere tangibili e tridimensionali anche i corpi dei morti o degli spettri, abitanti di quell’oltre-mondo che, nella dimensione narrativa di Enriquez, non è altro che il rovescio di questo mondo.»
Viviana Veneruso
(immagine in evidenza: Incubo di Johann Heinrich Füssli, 1781)

