Viaggio nel tempo della Letteratura

“I testamenti traditi”, di Milan Kundera

BREVE INTRODUZIONE… Devo ammettere che tentare di recensire – o perlomeno solo parlarne – questo saggio di Kundera, mi incute un certo timore referenziale.Il motivo sta nella 78c8be66da52c5c42b7cae5b564c3f5b_w600_h_mw_mh_cs_cx_cycomplessità della struttura e del pensiero dell’opera, che abbraccia una vastità di temi, opere, autori: un viaggio nel tempo (della letteratura).
In realtà non si tratta di un vero e proprio saggio, quindi non credetelo tale e non temete: l’edizione Adelphi, nella quarta di copertina, lo definisce “un romanzo che ha per protagonista il romanzo stesso”. Giusto. Ma non basta. Definirlo romanzo, sì, rende bene l’idea dello stile fluido, per nulla dissimile da quello che i lettori dei romanzi di Kundera già conoscono; e la stessa struttura di Parti, Capitoli e Paragrafi (molto brevi) è tipica di un romanzo; eppure, ancor più giusto di Romanzo sarebbe definirlo una Piacevole Conversazione Tra Amici: sagace, stimolante, persino divertente.
L’impressione è di starsene seduti in un salotto elegante, circondati da scaffali colmi di libri, una sinfonia ottocentesca in sottofondo da un grammofono d’epoca e la luce di un camino scoppiettante. E di fronte a noi avere uno dei maggiori scrittori e intellettuali contemporanei, che ci parla di romanzieri e musicisti, Rabelais così come Tolstoj, Cervantes e allo stesso tempo Hemingway, Bach e Stravinskij, ma soprattutto Kafka, e per ognuno dei temi affrontati, per ognuno degli autori citati, scoprire l’idea di mondo intorno alla loro figura e le illuminanti interpretazione e riflessione di Kundera.
E inoltre è una introspezione psicologica e antropologica di tutte le fasi della letteratura, una vera leccornia per chi ama i libri e le Lettere.
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… CON PREMESSA Credo che come introduzione abbia già detto molto, ma concedetemi solo una premessa. Non mi cimenterò in una recensione o una critica: non solo perché, per essere adeguata, richiederebbe lo spazio non di una pagina ma di un intero libro, e davvero è meglio di no; bensì non vorrei rendere prosaica, con la mia voce, un’opera tutta da gustare e da scoprire ognuno per sé: cosicché, se avrete voglia di leggerla, in quel salotto con Kundera ci sarete solo voi e lui, e nessun altro a privarvi del privilegio di quella intimità.
Quel che farò è proporre cinque citazioni accompagnate (non sempre, altrimenti il danno del mio intervento supererebbe il beneficio della citazione), da una breve considerazione (per le riflessioni di Kundera mi limito alla citazione e basta; lungi da me parafrasarle. Perché spiegare una tesi che nel libro Kundera spiega infinite volte meglio di me?), così da poter concedere un ‘assaggio’ che spero possa far venire ‘appetito’.

1.
«Lo humour: lampo divino che rivela tutta l’ambiguità morale del mondo e la profonda incompetenza dell’uomo a giudicare gli altri; humour: l’euforia che nasce dal conoscere la relatività delle umane cose, il bizzarro piacere che deriva dalla certezza che non ci sono più certezze» [p. 39]
L’humour ha contraddistinto “il primo tempo” della storia del romanzo. Boccaccio, Cervantes e Rabelais sono stati i pionieri del romanzo europeo; e di conseguenza tutto il romanzo europeo, da Boccaccio ai giorni nostri, è figlio dell’humour. Ci ritroviamo oggi, tuttavia, di fronte a un parricidio, o meglio ad un atto di estremo nichilismo, nel significato turgeneviano del termine: il romanzo moderno e contemporaneo, a partire da Scott e Balzac (con i quali il romanzo europeo si avvia per “il secondo tempo”), ha rimosso quel primo tempo dalla cui costola è stato generato, e l’esigenza della verosimiglianza ha reso Boccaccio, Cervantes e Rabelais dei cattivi modelli, sicché lo stesso humour è diventato “la cattiva coscienza del romanzo”. La bellezza della citazione di Kundera risiede nel restituire a questo genere la sublimità e la riverenza che gli spettano e gli dobbiamo.

2.
«È questa la prima clausola del suo [di Beethoven] testamento artistico destinato a tutte le arti, a tutti gli artisti, clausola che io formulerei così: non bisogna considerare la composizione (l’organizzazione architettonica dell’insieme) come una matrice preesistente, trasmessa all’autore affinché questi la riempia con la sua invenzione; la composizione stessa deve essere un’invenzione, un’invenzione che vede impegnata tutta l’originalità dell’autore» [p. 166]
Non è un caso che Kundera qui precisi “tutte le arti”. Come per Beethoven e chi fa musica, questo “testamento” può ben valere anche per uno scrittore, così come per un pittore e per qualunque persona che più semplicemente vive. Ognuna delle azioni che compiamo quotidianamente, da una occasionale conversazione alle più personali abitudini, segue sempre modelli e convenzioni già predisposti. Non si tratta di ridurre la vita a opera d’arte, nell’anacronistico significato che gli dava l’estetismo; bensì, forse più banalmente, che l’organizzazione architettonica di tutto quel che siamo e facciamo sia essa stessa quel che siamo e facciamo. La matrice delle nostre azioni, creazioni e invenzioni sia nostra, personale, effetto e risultato di noi stessi! Già Nietzsche diceva che per gli uomini è più facile accettare la realtà così com’è, piuttosto che trasformarla. Ma come sarebbe il mondo, o anche solo la nostra vita, se ognuno di noi evitasse di accettare “matrici preesistenti” da riempire meramente?, e svolgesse il proprio lavoro, pensasse, parlasse, mangiasse un tramezzino attribuendovi una personale interpretazione, infondendovi la propria personalità? Beethoven e Kundera ci donano un elogio della creazione e della creatività, che si sia scrittori, musicisti o esseri viventi.

3.
«Guardatevi intorno, in metropolitana; vedrete che tutti quanti, seduti, in piedi, si ficcano un dito in un qualche orifizio del viso, nell’orecchio, in bocca, nel naso; nessuno si sente osservato dagli altri e ciascuno pensa di scrivere un libro per poter esprimere il proprio unico e inimitabile io che si esplora le narici; nessuno ascolta nessuno, tutti scrivono e ciascuno scrive come se ballasse il rock: da solo, soltanto per se stesso, concentrato su di sé, eppure facendo gli stessi movimenti che fanno tutti gli altri.»[p 225]

C’è forse bisogno di aggiungere altro?

4.
«Un libro è il prodotto di un altro io, diverso da quello che si manifesta nelle abitudini quotidiane, nei rapporti sociali, nei vizi … L’io dello scrittore si manifesta unicamente nei libri» [p 256]

Non è Kundera a dirlo, ma Proust. Se Kundera inserisce le parole di Proust e concede a lui di esprimere questo pensiero, ecco che anch’io mi permetto di riportare una citazione di Proust, non di Kundera.
Gli amanti lettori probabilmente percepiranno un alone di magia intorno a queste parole, per il fascino di una frase capace di asserire che ogni scrittore è un dottor Jackyll e un Mister Hyde. Per chi invece si cimenta nella scrittura con una certa costanza, la sensazione può essere simile a quella provata di fronte allo specchio da Vitangelo Moscarda, nel notare, per la prima volta dopo una vita, un difetto al naso: ma dunque chi sono io?
Senza aggiungere altro, ritengo che questa citazione racchiuda e trasmetta tutta la bellezza alchemica di ogni pensiero, storia o idea riportate in scrittura, che la si guardi dalla prospettiva del lettore o da quello del suo autore. E ci svela che forse solo gli artisti hanno la possibilità di riuscire a conoscere il proprio io.

5.
«
Prima che il diritto d’autore divenisse legge, è stato necessario che si affermasse un certo atteggiamento di rispetto nei confronti dell’autore. Questo atteggiamento, maturato lentamente nel corso di alcuni secoli, mi sembra oggi in via di dissoluzione. Non vedo, altrimenti, come si potrebbe accompagnare uno spot pubblicitario per la carta igienica con una musica di Brahms. O pubblicare nel plauso generale versioni ridotte dei romanzi di Stendhal. Se quell’atteggiamento di rispetto nei confronti dell’autore esistesse ancora, tutti si chiederebbero: ma Brahms sarebbe d’accordo? E Stendhal non andrebbe su tutte le furie?» [p. 260]
Il vero problema non è la dissoluzione esclusiva del rispetto nei confronti di un artista, quanto nei confronti nella quasi totalità del pensiero, del lavoro e della creazione intellettuali. Possiamo già evincerlo dai dati di successo lavorativo che hanno oggi i laureati in una facoltà umanistica e in una tecnico-scientifica: il mondo del lavoro oggi rispecchia perfettamente tale involuzione.
Un professore negli anni ’50 riceveva riverenti e ossequiosi trattamenti e la sua professione era percepita con rispetto e come motivo d’onore. Essere professore negli anni ’50 era un privilegio. Essere professore oggi è… niente, non è assolutamente niente. È un semplice lavoro, pari a qualsiasi altri, se non anzi inferiore.
Conoscere la filosofia nel ‘700 o nell’ ‘800 era anch’esso un motivo di onore e di orgoglio. E oggi? Qual è l’opinione che si ha oggi di chi studia filosofia? Retorica domanda!
Ma quali sono le cause di questa involuzione?
Certo, per rispondervi, ci sarebbe bisogno di un sociologo e di una indagine sociologica. Quel che credo tuttavia è che a spostare l’ago della bilancia sia stata la cosiddetta rivoluzione tecnologica (e vi includo mezzi di comunicazione di massa, radio, televisioni e da ultimo internet) che sta caratterizzando l’età contemporanea e gli anni duemila. Così come la rivoluzione industriale ha segnato una cesura nella vita dell’uomo, stravolgendola completamente, così, oggi, questa trasformazione (e non è da ritenere conclusa: ci siamo nel bel mezzo, se non addirittura all’inizio) sta stravolgendo nuovamente la vita dell’umanità: abitudini e modus vivendi così come principi, etiche e morali.
Il merito di Kundera è di essere stato un visionario: “I testamenti traditi” è stato pubblicato nel 1992: era l’alba della telefonia cellulare e di internet. Già nel 1992 aveva intuito quanto solo oggi, alla luce delle nuove scoperte e invenzioni, con facilità possiamo osservare.
Come promesso, è tutto.
Grazie dell’attenzione,
Il Viandante sul mare di nebbia

 

Nota: Citazioni e pagine fanno riferimento alla Sesta Edizione 2010 de “I testamenti traditi”, pubblicata da Adelphi Edizioni nella collana Gli Adelphi, per la traduzione di Maia Daverio.

4 Comments

  1. Quando leggi un libro di Kundera si spalancano due tempi: quello della storia e quello dell’interiorità. Su entrambi senti di essere inadeguato. Kundera è arrivato ed è andato oltre quello che tu ti accingevi ad esplorare. Questo libro non l’ho letto, naturalmente rimedierò presto. Grazie

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    1. Grazie! Ancora una volta un articolo molto interessante, scritto benissimo e che, come si ripromette, stuzzica sapientemente l’appetito di chi ama nutrirsi di libri. Grazie, di nuovo.

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