“Un infinito numero”, di Sebastiano Vassalli
Come in altra occasione avevo anticipato, ho letto Un infinito numero di Sebastiano Vassalli, divorato circa dieci giorni fa tra una andata e un ritorno in treno. Le mie aspettative non sono affatto state deluse: sapevo di starmi approcciando a uno dei più valenti scrittori italiani contemporanei e questo libro me l’ha confermato.
La mia passione per la classicità non ha fatto altro che restare appagata da quest’opera: basta nominare il protagonista: Virgilio. Tra i personaggi comprimari abbiamo Mecenate, mentre sullo sfondo appaiono Ottaviano e Marco Antonio, nel pieno e nel seguito della guerra civile. Il narratore è Timodemo, grammatico greco acquistato come schiavo da Virgilio per farne il suo segretario. Convenendo con quel che disse il critico e scrittore Alfredo Giuliani, nell’accogliere la pubblicazione di Un infinito numero sulle colonne di Repubblica nel 1999, quella di affidare la narrazione al liberto Timodemo si rivela una scelta davvero felice. Le sue parole, così vive e reali, quasi non fossero mai state trasfigurate da una finzione letteraria, bensì giunte intonse, vere e autentiche fino a noi, ci traghettano in un frammento di storia romana, alla conoscenza di una quotidianità e una realtà che i libri di scuola non possono toccare, all’incontro con il poeta vate della letteratura latina, di cui impariamo pregi e debolezze, sogni e turbamenti, indole e personalità.
I leitmotiv principali dell’opera sono il tempo e la memoria, nelle loro forme assunte all’interno della Storia e della scrittura. Non a caso, come suggeriscono la citazione che accoglie l’inizio del romanzo e la quarta di copertina, ad essere in ‘infinito numero’ sono le combinazioni possibili che disegnano la Storia.
E infatti, a condire e incorniciare le vicende del romanzo, sono le interessanti e stimolanti riflessioni sul significato della scrittura e le interpretazioni della Storia.
Ma appunto, le vicende: limitandomi a introdurle nel modo più semplice possibile, di modo da non togliere alcun piacere d’una lettura, si può dire che tutto ruota intorno alla creazione dell’Eneide, dalla genesi al tentativo estremo da parte del suo autore di distruggerla.

Dopo aver ricevuto uno scorcio sulla vita del narratore, incontriamo Virgilio prima al mercato di Napoli, dove acquista Timodemo, e subito dopo, nella sua umile pacatezza, in una solenne lettura pubblica delle Georgiche, al cospetto di Ottaviano, il quale decide di commissionare al poeta l’opera che creerà artificiosamente il mito di Roma e inventerà le sue tradizioni e le sue usanze.
Da questo momento in poi avrà inizio la vera e propria vicenda cardine dell’opera: il viaggio che Virgilio, Mecenate e Timodemo compiono in Etruria, dove Virgilio è convinto di trovare le tracce e le notizie delle origini di Roma.
Questo viaggio, in una atmosfera onirica e realisticamente magica, si rivelerà inaspettato: i protagonisti, immergendosi nelle usanze, nella tradizione, nelle pratiche religiose degli Etruschi (e qui appare il genio di Vassalli nei romanzi storici), scoprono di fare non solo un viaggio fisico nello spazio, ma anche nel tempo, tra futuro e passato, spinti da una domanda: come mai gli etruschi, popolo così intelligente e colto, provvisto di un alfabeto, non abbiano lasciato alcun segno scritto? Cos’era per loro la scrittura? Rispondendo a questa domanda, si vedrà come, paradossalmente, la memoria non sia vita ma morte.
Questa ricerca porterà i tre protagonisti a scoprire le verità sulla fondazione di Roma.
Ecco, è qui che il tutto si fa ancor più interessante: Vassalli dissacra il mito di Roma, perché quel che si scopre non è una storia di eroismo, ma di abominio. E la voce diventa quella delle popolazioni laziali che Enea e compagni distruggono: uomini uccisi per salvare le mogli, giovani donne violentate fino alla morte, bambini massacrati senza pietà. Il pio Enea della letteratura appare nella sua veste storica come un crudele comandante, grosso, brutto d’aspetto, laido ed empio.

Eppure, Virgilio è in qualche modo costretto a scrivere la storia di Roma all’opposto di come scopre essere avvenuta. Enea dev’essere pio, Roma sacralizzata e i suoi fondatori eroi, non feroci assassini.
Ma dunque, cosa rappresenta l’Eneide per Virgilio? La risposta è una: la morte. Da quando inizia a scrivere l’Eneide, e per tutti i nove anni in cui la cancella e la riscrive e la corregge e la modifica di nuovo, Virgilio si avvia alla dissoluzione. Quell’opera lo annienta, giorno dopo giorno. Lui la odia, la detesta, ma le minacce di Ottaviano Augusto non gli concedono una alternativa. E così, lo scrupolo di star scrivendo una Storia mendace, di concedere ai posteri e alla stirpe di Roma una enorme menzogna, un “falso storico”, una bugiarda verità, conducono Virgilio alla dissipazione, fino alla morte. E qui si rivela profetica la risposta dei Rasna – gli etruschi –, che non hanno scritto perché la scrittura è morte.
Questo di Vassalli è un romanzo ipnotico, miracolosamente accessibile anche a chi non ha fatto gli studi classici (altro grande merito del suo autore!), in cui si arriva a capire che la Storia altro non è che la più grande delle metafore.
Ps, per chi fosse interessato a conoscere qualcosa in più su questo interessantissimo scrittore, consiglio il seguente articolo, una intervista di 360° a Vassalli, pubblicata su Repubblica nel 2014
http://www.repubblica.it/cultura/2014/09/14/news/sebastiano_vassalli_potevo_uccidere_o_impazzire_per_questo_ho_cercato_altre_storie-95800965/
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