Come inizia, come finisce: Addio a Umberto Eco

La notizia della morte di Umberto Eco, ieri 19 febbraio 2016, è stata profondamente sconvolgente. Non solo per la perdita di una voce acuta e quasi onnisciente sui fatti del mondo, non solo per il rimpianto di non poter leggere altre sue parole, di non poter vantare tra i talenti italiani viventi il suo illustre nome, ma soprattutto perché il suo occhio sempre aperto e critico sul mondo, il suo aspetto composto e attento nonostante gli ottantaquattro anni di età fornivano l’illusione che l’Arte e la Cultura fossero, in un certo qual modo, immortali. 

Lo ricordiamo con un brano del 1988 tratto dal Secondo diario minimo, che ben sintetizza la capacità di Eco di raccontare grandi verità con tono quasi casuale.

COME INIZIA, COME FINISCE

C’è un dramma nella mia vita. Ho condotto gli studi superiori ospite del Collegio Universitario di Torino, dove avevo vinto una borsa di studio. Conservo di quegli anni grati ricordi e una profonda ripugnanza verso il tonno. Infatti la mensa rimaneva aperta per un’ora e mezza ad ogni pasto. Chi arrivava nella prima mezz’ora aveva la pietanza del giorno, chi arrivava dopo aveva il tonno. Io arrivavo sempre dopo. Escludendo i mesi estivi e le domeniche, ho consumato in quei quattro anni 1920 pasti a base di tonno. Ma il dramma non è questo.

È che non avevamo soldi ed eravamo famelici anche di cinema, musica e teatro. Per il teatro Carignano avevamo trovato una splendida soluzione. Si arrivava dieci minuti prima dell’inizio e ci si avvicinava al signor (come si chiamava?), il capoclaque, gli si stringeva la mano lasciandogli nel palmo cento lire, e lui ci faceva entrare. Eravamo una claque pagante.

Si dava tuttavia il caso che il Collegio chiudesse inesorabilmente a mezzanotte. Dopo chi era fuori restava fuori, perché non c’erano vincoli disciplinari, e se uno studente voleva, poteva anche non andarci per un mese. Questo significava che a mezzanotte meno dieci bisognava lasciare il teatro e scappare veloci verso la meta. Ma a mezzanotte meno dieci la piéce non era ancora finita. È così accaduto che in quattro anni io mi sia visto tutti i capolavori del teatro di tutti i secoli, ma tutti senza gli ultimi dieci minuti.

Ho passato pertanto una vita senza sapere come Edipo se la fosse cavata di fronte all’orrenda rivelazione, che fine avessero fatto i sei personaggi in cerca d’autore, se Osvaldo Alving fosse guarito grazie alla penicillina, se Amleto avesse infine scoperto che valeva la pena di essere. Non so chi sia la signora Ponza, se Ruggero Ruggeri – Socrate abbia bevuto la cicuta, se Otello abbia preso a schiaffi Jago prima di partire per un secondo viaggio di nozze, se il malato immaginario sia guarito, se tutti abbiano bevuto con Giannettaccio, come sia finita Mila di Codro. Credevo di essere l’unico mortale afflitto da tanta ignoranza quando casualmente, chiacchierando id vecchi ricordi con il mio amico Paolo Fabbri, ho scoperto che lui da anni soffre dell’angoscia opposta. Durante i suoi anni studenteschi collaborava a non so quale teatro universitario cittadino, e stava alla porta a staccare i biglietti. A causa dei molti ritardatari, ha sempre potuto entrare in sala solo dopo il secondo atto. Vedeva Lear aggirarsi cieco e sciamannato con il cadavere di Cordelia tra le braccia e non sapeva chi poteva aver condotto entrambi a quella miserrima condizione. Udiva Mila gridare che la fiamma è bella e si arrovellava per capire come mai cuocessero alla griglia una ragazza di sentimenti talmente elevati. Non ha mai compreso perché Amleto ce l’avesse con lo zio, che sembrava tanto una brava persona. Vedeva Otello fare quello che faceva, e non si capacitava perché una mogliettina così fosse da mettere sotto e non sopra il cuscino.

Insomma, ci siamo confidati a vicenda. E abbiamo scoperto che ci attende una splendida vecchiaia. Seduti sui gradini di una casa campestre o su una panchina dei giardini pubblici, per anni staremo a raccontarci, l’uno gli inizi all’altro, l’altro i finali all’uno, emettendo grida di stupore ad ogni scoperta di antefatto o catarsi.

“Ma davvero? Come ha detto?”

“Ha detto: ’Mamma, voglio il sole!’”

“Ah, be’, allora era spacciato.”

“Sì, ma che cosa aveva?”

Gli sussurrò qualcosa all’orecchio.

“Dio mio, che famiglia, adesso capisco…”

“Ma dimmi di Edipo…”

“Non c’è molto da dire. La mamma s’impicca e lui si acceca.”

“Ma povero ragazzo. Anche lui, però: gliel’avevano fatto capire in tutti i modi.”

“Infatti anch’io non mi do pace. Perché non capiva?”

“Mettiti nei suoi panni, quando inizia la peste lui è già re e marito felice…”

“Allora quando si è sposato con la mamma, lui non…”

“Eh no, questo è il bello.”

“Cose da Freud. Se te lo raccontassero non ci crederesti.”

Saremo, allora, più felici? O avremo perduto la freschezza di chi ha il privilegio di vivere l’arte come la vita, dove entriamo quando i giochi sono già stati fatti, e donde usciamo senza sapere dove gli altri andranno a finire?

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