“Dmitrij Šostakovič ha già riscosso successi in patria e in mezzo mondo quando il compagno stalin in persona emette l’inappellabile condanna: la sua non è musica, è solo caos.”
Julian Barnes è uno degli scrittori più apprezzati nel panorama letterario internazionale, sia dalla critica che dai lettori. Vincitore di premi illustri, tra i quali il prestigioso Man Booker Prize, del quale è stato finalista altre tre volte, e il suo nome spesso circola al momento dei pronostici per il Nobel. Se qualcuno avesse avuto ancora dei dubbi su di lui, con questo romanzo Barnes non fa che confermarsi uno scrittore eccellente.
Il rumore del tempo è un romanzo particolare, intricato, con una struttura tutta sua e peculiare; più che intrattenere, è un romanzo che fa riflettere, e non solo sulla vita vera del compositore russo Dmitrij Šostakovič, bensì sul senso dell’arte, sulla musica, sul tema dell’identità. Si tratta di un romanzo-vortice, tuttavia nel quale turbiniamo adagio, lenti, eppure in maniera impetuosa. Anche a chi non s’intende di musica e di compositori russi, l’incredibile vita di Šostakovič risulterà intrigante e degna d’essere conosciuta.
Con un talento prodigioso, con dovizia di precisione, Barnes ci offre un quadro perfetto dell’Unione Sovietica staliniana, delle vicende culturali e politiche di quegli anni, intorno alle quali s’intrecciano gli episodi della vita di Šostakovič. La ricostruzione di Barnes di un’epoca e di luoghi così particolari e ardui da ricostruire rende difficile credere, per il lettore, che non s’è davanti a un’opera di uno scrittore russo che ha vissuto quegli anni. E l’altro talento di Barnes sta nel far uso del dono della sintesi: attraverso una complessa struttura che, perlomeno in apparenza, procede priva di un filo conduttore, dove le vicende e le riflessioni del protagonista sono raccontati così come avverrebbe in un flusso di coscienza, con sovrapposizioni temporali e la mancata evidenza di una connessione tra un evento e un altro, Barnes ricompone la vita di Dmitrij Šostakovič e lo scorcio dell’Unione Sovietica sì con abbondanza e precisione di dettagli, ma soprattutto in meno di duecento pagine. Tantissimi altri autori, per lo stesso fine, avrebbero impiegato almeno cento o duecento pagine in più, per arrivare allo stesso risultato.
La vita di Šostakovič merita davvero d’essere conosciuta. Dapprima un genio precoce, un’intelligenza scaltra, sagace, irriverente. Entriamo nei suoi pensieri, dalla gioventù fino alla morte. Lo vediamo scrivere sul proprio diario, nella pagina di giorni subito prossimi, appuntamenti quali “suicidio” oppure “oggi matrimonio con prostituta” per prendersi gioco della madre che aveva il vizio di leggere il suo diario. Seguiamo le sue teorie sull’amore libero, la passione per le sue amanti e parallelamente l’amore per sua moglie. E intanto il successo, il riconoscimento del suo talento. Poi accade qualcosa, che incrina il suo vivere: La mattina del 29 gennaio 1936 la terza pagina della Pravda commentava la recente esecuzione al Bol’soj della Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Šostakovič titolando Caos anziché musica e accusando l’opera di accarezzare «il gusto morboso del pubblico borghese con una musica inquieta e nevrastenica».
Non si trattava solo della recensione negativa capace di rovinare la giornata di un artista. Neppure della stroncatura in grado di distruggergli la carriera. Nell’Età del terrore del compagno Stalin un editoriale del genere, e il conseguente stigma di nemico del popolo, poteva interrompere la vita stessa. Da qui in avanti tutto precipita: le pressioni di Stalin affinché mettesse la sua arte al servizio della propaganda sovietica, le minacce continue di morte, l’annullamento della sua libertà in quanto uomo e in quanto musicista, le censure di cui fu vittima, l’isolamento a cui andò incontro, fino ad arrivare all’inevitabile resa di un uomo stanco, che non può più di lottare, e cede, tradendo in primis se stesso, alle intenzioni del Potere, asservendo la sua identità, la sua musica a una ideologia che non solo non condivideva, ma che ripudiava, odiava, schifava.
Šostakovič ripudia anche se stesso, perché incapace di reagire, di salvare la sua integrità. Ma al tempo stesso è incapace anche di abiurare, e questa immobilità sa di renderlo codardo.
“Erano tante le cose di cui poteva accusarsi: omissioni, mancanze, compromessi, il tributo versato a Cesare. Certe volte vedeva se stesso come Galileo e contemporaneamente come l’altro scienziato, quello con la famiglia da sfamare.”
A volte sente persino l’impulso di ammazzarsi, ma non nutre neppure quel minimo di considerazione per se stesso fondamentale per il suicidio. Neanche da questo contrasto, da questo paradosso riesce a emergere. Dai sui pensieri si dipana un continuo interrogarsi sul tempo (tema caro a Barnes): è terrorizzato dall’evenienza d’essere obliato, che alla sua morte il Potere cancellasse ogni traccia della sua vita, com’era solito fare con chiunque non fosse simmetrico all’ideologia stalinista, al punto che Dmitrij Šostakovič non fosse mai esistito. Eppure aveva ancora una speranza, e quella speranza era la musica: s’augurava che la musica potesse sopravvivere a se stesso, e che un giorno, svicolata dal rumore del tempo, potesse apparire autentica e venire finalmente compresa e apprezzata.
“La speranza era che la morte avrebbe liberato la sua musica, che l’avrebbe liberata dal legame diretto con la vita insomma.” “Che cosa poteva contrapporre al rumore del tempo? Solo la musica che viene da dentro – la musica del nostro essere – che alcuni sanno trasformare in musica reale. E che se nei decenni a venire sarà abbastanza forte e pure e autentica da annegare il rumore del tempo, si trasformerà nel mormorio della storia. Ecco, si aggrappava a questo.”
Un romanzo forte, potente, di alta letteratura, quella letteratura più autentica, elevata, nobile, che si pone come obiettivo rendere giustizia alla storia, riportare alla memoria fatti reali che meritano di restare a galla, d’essere conosciuti, d’essere modelli e occasione di riflessione. Barnes è un grande scrittore non tanto o solo per la sua abilità narrativa – sarebbe banale – ma perché fa parte di quegli scrittori che, come sostiene Kundera, “insegnano al lettore a considerare il mondo come una domanda.”