Lettere del ritorno: la dichiarazione poetica di von Hofmannsthal

Lettere del ritorno, Hugo von Hofmannsthal
(Villaggio Maori Edizioni)

Spendere parole per introdurre Hugo von Hofmannsthal potrebbe apparire superfluo: si tratta senza dubbio di uno dei maggiori scrittori austriaci ed europei del secolo scorso, importante autore per il teatro ma non solo. E se le sue opere per il teatro e per la lirica imagessono senz’altro note, tradotte e commentate, nella sua vasta produzione molte altre sono le perle che restano nascoste al grande pubblico, magari perché poco tradotte e pertanto lasciate appannaggio del nugolo di esperti germanisti.

È il caso delle Lettere del ritorno, da poco pubblicate in Italia dalla casa editrice indipendente Villaggio Maori. Corredate di un prezioso apparato introduttivo sull’opera in sé nonché sulla figura di von Hofmannsthal, e con una rigorosa e precisa traduzione, quest’edizione ha il pregio di portare finalmente in Italia un’opera nascosta del grande scrittore austriaco.

Lettere del ritorno consta di cinque epistole fittizie scritte nel 1907 il cui mittente è un uomo d’affari tedesco che dopo diciotto anni trascorsi in terre lontane tra l’Oriente e il Sud America torna finalmente in patria. Il turbinio di sensazioni che gli provoca il ritorno è sconvolgente.

“Così, dopo diciotto anni, sono di nuovo in Germania, in viaggio verso l’Austria, e nemmeno io stesso so cosa provo. Già sulla nave elaboravo concetti, giudizi su ciò che avrei visto. Tutto ciò, proprio tutto, è andato in fumo in questi quattro mesi, nel confronto con la realtà delle cose, e non so che cosa ha preso il loro posto: un sentimento scisso del presente, uno stordimento confuso, un disordine interiore, prossimo all’insoddisfazione – e quasi per la prima volta nella mia vita mi accade che mi invada una precisa percezione di me stesso.”

Il fittizio autore delle lettere si trova di fronte a una crisi esistenziale dovuta al contrasto tra ciò che ricordava d’aver lasciato e quello che trova; tra le nostalgiche immagini conservate nella memoria e la realtà fattuale. Tale condizione provoca in lui delusione e smarrimento, una sensazione d’ottundimento e disagio dovuta alla perdita improvvisa di ogni punto cardiale che è anche la perdita terribile del noto e del familiare.

“Cosa mi ero immaginato? Cosa mi aspettavo di trovare? E perché mi sembra ora di perdere il terreno sotto i piedi?”

OLYMPUS DIGITAL CAMERAIl tema del nostos, leitmotiv ricorrente nella letteratura mitteleuropea (e penso a L’ignoranza di Kundera in particolar modo, in cui la protagonista non riconosce nulla del luogo natio in cui ritorna dopo lungo tempo; oppure a Epepe di Ferenc Karinthy, nel quale il protagonista si ritrova per caso in un paese insolito che è impossibile confrontare con qualsiasi altro e nel quale nessuno parla la sua lingua né pare condividere neppure i suoi stessi concetti culturali), diventa qui il pretesto letterario per una riflessione sull’identità e cultura tedesca e soprattutto per una ardita dichiarazione poetica, “uno spericolato esperimento di una scrittura estatica della visione come figurazione dei meccanismi della fantasia immaginativa” come si legge nella introduzione di Grazia Pulvirenti. La riflessione si concentrerà poi sulla materia del linguaggio e del colore, a partire da una mostra di Van Gogh a cui l’autore fittizio partecipa quasi per caso e che si trasformerà in un’esperienze estetica ed estatica.

“Mio caro, non esistono coincidenze, e io dovevo vedere questi quadri, dovevo vederli in quel momento, in quello stato d’animo sconvolto, in quel contesto […] E adesso, di quadro in quadro, potevo sentire un Qualcosa, di quelle creazioni potevo sentire che cose le legava l’una all’altra e tutte tra loro, potevo sentire in che modo la loro vita più nascosta esplodeva nel colore, e in che modo i colori vivevano l’uno per l’altro, e in che modo uno di essi, di misteriosa potenza, portava tutti gli altri, e potevo percepire in tutto ciò un cuore, l’anima di colui che aveva realizzato, che con questa visione si dava una risposta alla paralisi del dubbio più spaventoso, potevo sentire, potevo sapere, potevo cogliere, potevo assaporare abissi e vette, l’esterno e l’interno, uno e tutto nella diecimillesima parte del tempo in cui ti scrivo queste parole, ed ero come doppio, e allo stesso tempo padrone della mia vita, padrone delle mie forze, del mio intelletto, sentivo il tempo trascorrere sapevo che adesso mi restavano solo venti minuti, ancora dieci, ancora cinque, e mi trovai fuori, chiamai una carrozza, andai.”

Dotate di uno stile elegante e sublime, le Lettere del ritorno sono sicuramente un’opera complessa – forse bisognerebbe conoscere di fondo la poetica e il pensiero del loro autore per coglierne appieno il significato e apprezzarle interamente – ma rappresentano una occasione per scoprire un perla nascosta nella produzione di uno scrittore eccellente e importante come von Hofmannsthal.

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