“Il pastore d’Islanda”, il romanzo che ispirò Hemingway per “Il vecchio e il mare”

Il pastore d’Islanda, di Gunnar Gunnarsson

Ci sono libri che somigliano ai vestiti: non possono essere letti in ogni periodo dell’anno o in ogni situazione. Il pastore d’Islanda è uno di questi: è difficile cogliere in pieno la magia di questo racconto lungo se non lo si legge in inverno. Questa mia impressione è confermata da Stefanssòn nella postfazione: lo scrittore islandese afferma infatti di aver letto per anni questo libro il giorno della vigilia di Natale.

La vicenda, in realtà, non coinvolge i festeggiamenti del Natale così come noi siamo abituati ad intenderli, ma irradia quei sentimenti di bontà, speranza e condivisione che accompagnano o dovrebbero accompagnare questa festività nell’immaginario comune.

Il protagonista Benedikt ha cinquantaquattro anni e da ventisette, dunque da metà della il-pastore-dislanda-copsua vita, si mette in cammino la prima domenica dell’Avvento per salvare dalla morte per fame le pecore smarrite sulle montagne islandesi, accompagnato da due fedeli compagni, il cane Léo e il montone Roccia.

Non c’è alcun fine economico o interesse che non sia il puro desiderio di aiutare altri esseri viventi a spingere Benedikt all’azione: lui si occupa delle pecore perdute perché semplicemente è qualcosa che va fatto, è una missione da compiere e non è più o meno importante di altri obiettivi. Un protagonista così esageratamente buono sarebbe potuto diventare finto o retorico nelle mani di un autore dal tocco meno lieve: Gunnarsson riesce invece, con uno stile sobrio ed aggraziato, a raggiungere il cuore della vocazione di Benedikt, privandola di tutto ciò che potrebbe renderlo lezioso e ricoprendolo di una accecante limpidezza.

Al centro del libro c’è il rapporto tra Benedikt, Léo e Roccia: l’autore chiarisce da subito che i tre sono legati da un rapporto di amicizia paritario. Riportando le sue stesse parole, Da anni i tre erano inseparabili quando c’era da fare quella gita, e ormai si conoscevano a fondo, con quella dimestichezza che forse è possibile solo tra specie animali molto diverse, e che nessuna ombra del proprio io e del proprio sangue, nessun desiderio o passione personale può confondere o oscurare.

Roccia e Léo risultano molto più caratterizzati e centrali di tutti gli altri personaggi umani che fanno capolino sul cammino di Benedikt: entrambi sono coraggiosi e instancabili e se Léo è il più avventato e Roccia è il più tenace.

A tormentare il cammino di Benedikt, Léo e Roccia ci sono le avversità metereologiche, la terribile tempesta che sembra voler impedire a tutti i costi ai tre di portare a termine il loro compiti. La neve e le montagne sono descritte minuziosamente, quasi avessero un’anima anche loro, e in questo caso si tratta di un’anima avversa alla missione dei protagonisti: il tempo e la natura sono i costanti nemici di Benedikt, che tuttavia non si arrende neanche davanti al freddo più disperato. D’altra parte Gunnarson scrive: È questo il compito dell’uomo, forse l’unico al mondo: trovare una soluzione. Non darsi per vinto. Rivoltarsi contro il pungolo, per quanto sia tagliente, perfino contro quello della morte, fino al giorno in cui gli permetterà il cuore. 

Si tratta di parole fiabesche, troppo difficili da mettere in pratica? Questo è difficile da stabilire. Quel che è certo è che questa novella ha avuto, fin dal momento della sua pubblicazione nel 1936, un successo strepitoso, fino a diventare un classico immancabile della letteratura islandese, e, come svela Stefanssòn nella postfazione, la sua magia ha influenzato scrittori di fama mondiale come Ernest Hemingway, che dovette ispirarsi a Benedikt e alla sua determinata lotta con la natura per il suo Il vecchio e il mare. Grazie alla nuovissima edizione Iperborea che ha portato per la prima volta questo piccolo capolavoro in Italia, il fascino dell’inverno islandese può incantarci ancora oggi.

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