Nella perfida terra di Dio, Omar di Monopoli
(Adelphi)
È difficile trovare le parole giuste per iniziare questa recensione: probabilmente, le ha sottratte tutte Di Monopoli. Nella perfida terra di Dio è un romanzo ipnotico e ammaliante, un pozzo in cui precipiti vertiginosamente e dal quale non vuoi più uscire. Leggerlo è stato come farsi trasportare dalle acque impetuose di un fiume in piena, senza la possibilità di alcunché a cui aggrapparsi per porre termine alla corsa. Immerso nelle sue pagine, il tempo smette di scorrere alla stessa maniera di sempre, le ore scivolano via e non capita di distrarti un attimo. La storia si dipana, la lingua ti agguanta, e in una giornata duecento pagine svaniscono, la lettura termina, prima che fossi pronto ad accettarlo.
Un prodigio, verrebbe da credere. Non si spiegherebbe altrettanto. Omar Di Monopoli ha scritto un romanzo bellissimo e dal respiro epico, che si legge tutto d’un fiato.
L’impronta rancida della malattia non voleva saperne di abbandonare la stanza in cui il vecchio mbà Nuzzo aveva tirato le cuoia tre giorni prima, allignando ostinata anche nel soggiorno ronzante di mosche incattivite dal caldo, quando il pick-up color caffellatte, un Volkswagen sbiadito e smarmittato che sembrava pronto per il ferravecchio, spuntò oltre il limite del cancello e si fece strada lentamente sul vialetto soffiando neri sbuffi di gas di scarico e smuovendo piastre di fango raggrumato
L’opera ha inizio così. Ci ritroviamo a Rocca Bardata, nel Salento più profondo e selvaggio, più duro e nient’affatto turistico, tra le province di Taranto e di Brindisi, all’ombra opprimente dell’Ilva. L’uomo che compare all’improvviso e che in pochi riconoscono è Tore Della Cucchiara, tornato dopo tanto tempo da chissà dove. Il suo passato appare subito come un nero sudario che nasconde ogni cosa. Neppure i figli, Gimmo e Michele, cresciuti senza di lui, sanno qualcosa del padre né lo riconoscono, quando scende dal pick-up color caffellatte. Sanno solo quello che si sente dire in giro: che sia stato lui a uccidere la loro madre, Antonia, scomparsa nel nulla.
Il romanzo è corale. Dalla casa di Tore ci ritroviamo in un convento, suor Cristina e suor Narcissa sembrano subito nascondere qualcosa, nel rapporto che le lega a Carmine Capumalata, ex socio di Tore e figura di spicco della criminalità organizzata. E c’è Agostino, il tuttofare, un idiota che vive nel convento, forse il frutto del peccato.
La storia si divide su due piani narrativi: al dopo si alterna il prima, nel quale troviamo un giovanissimo Tore e seguiamo le vicende di mbà Nuzzo, un santone guaritore che professa i suoi poteri miracolosi con i quali promette di guarire tutti i mali. Predica nel nome di Cristo e la povera gente si affida a lui, lo venera come un Dio, pagandolo in denaro e derrate. Un cartello davanti alla sua casa recita: GESÙ E ARIVATO.
Nell’alternarsi di passato e presente, la lettura scorre vorticosa. Le storie dei vari personaggi si scoprono intrecciate, gli eventi del prima diventano pian piano la chiave di interpretazione di ciò che accade nel dopo, ricomponendo il tortuoso mosaico delle vicende tassello dopo tassello, dando risposta ai dilemmi lasciati sospesi.
L’atmosfera è epica, in tutta la grandezza del termine, eppure rugginosa, sabbiosa, sospesa nel tempo come un romanzo di Faulkner. Tore ha un po’ dell’Odisseo tornato dopo la lunga assenza: anche lui non riconosciuto dagli affetti, anche lui segnato dagli eventi, come lui deciso a vendicarsi. Un Odisseo moderno e al tempo stesso uscito da un film di Sergio Leone e da un’opera di Steinbeck, silenzioso e tacito e pure pieno di cose da raccontare.
Il fascino dell’atmosfera del romanzo è dato proprio dal contrasto tra la solennità e la miseria, tra la redenzione e la condanna, tra un respiro leggendario, ricco di misticismo e superstizione, ed uno miserevole, dove ogni persona, ogni oggetto sono coperti di polvere e infimità – tra la terra di Dio e la sua propria perfidia. Una contrapposizione che persiste in ogni aspetto dell’opera: pensiamo all’opposizione tra la figura delle suore e del santone, e quella dei criminali come Carmine e Tore, ma anche dei poveri e meschini Gimmo e Michele. E il contrasto si perpetra inoltre tra la costante patina di rassegnazione, di assoluta mancanza di salvezza e redenzione che ammanta ciascuno dei personaggi, rispetto alle promesse di guarigione di mbà Nuzzo o la vita eterna della soteriologia cristiana.
Ma qui non si pente mai nessuno, sentite a ve ne accorgerete pure voi stesse: questa, terra di farabutti e capatoste è destinata a rimanere, nei secoli dei secoli! (p.61)
In generale il sacro e il profano si intrecciano e si compenetrano.
La figura di Dio, invocata nel titolo, aleggia torva su tutta la storia, anche qui sia nei toni ampollosi della religione sia in quelli volgari delle bestemmie.
Narcissa restò a fissare il corridoio deserto che si riempiva dell’eco tenace dei suoi passi e per un attimo contratto le parve che le figure afflitte e martoriate del Cristo si staccassero dalle pareti per sporgersi verso di lei, a gridare il suo nome fumanti di rabbia (p.156)
Dio non c’è. Siamo soli. Viviamo come capita e poi tutto finisce. Non c’è altro. (p.162)
Tale condizione si riflette perfettamente nella lingua, che è uno degli aspetti più rilevanti dell’opera e che rende la voce di Di Monopoli una delle più originali e interessanti di tutta la letteratura italiana contemporanea. Per ammissione stessa dell’autore, è il frutto di un lavoro che dura dieci anni, ovvero dalla pubblicazione del suo primo romanzo, Uomini e Cani.
Il dialetto e le costruzioni sintattiche vernacolari si fondono con un italiano elevato e ricercato; termini aulici e sublimi si alternano ad altri più gretti e volgari. Per fare un esempio:
Vidi nu poco che sorta d’esercito di cuccuàsce! proruppe divertito Mesciu Soriano levando il mento nella loro direzione e agguantandosi al contempo la ciolla in un irrefrenabile gesto apotropaico (p.80)
A ciò si aggiunge l’elaborazione di un dialetto a tratti rimodulato, reinventato, nonché il frequente utilizzo di neologismi e termini specifici. La commistione di tutti questi elementi crea una lingua unica e particolare, che, se all’inizio spiazza e confonde, ha il pregio di non stancare, bensì, addentrandosi sempre più nella lettura, di risultare familiare. E ci si convince che è la sola unica lingua possibile per un romanzo del genere, capace di creare essa stessa l’atmosfera pregevole del romanzo. La lingua si esula dal ruolo di strumento, e come in Gadda, Bufalino o Manganelli, diventa protagonista imprescindibile dell’opera.
Sembrava che una scalogna più nera della pece si riversasse a ondate cicliche e fatali su quelle terre disordinate. Il più disastroso e irrimediabile di tale fattispecie di marosi, evocato dai vecchi bacucchi indigeni con lo stesso carico di solenne apprensione con cui si parlerebbe di una piaga biblica, aveva interessato quelle latitudini sullo scorcio degli Ottanta, quando il calo produttivo dovuto alla crisi dell’acciaio aveva imposto al polo siderurgico di Taranto, uno fra i più grossi e inquinanti d’Europa, di smantellare parte dei cantieri e licenziare senza misericordia. (p.44)
Ci sono le caratteristiche di un romanzo di genere – western (pugliese), southern-gothic -, ma in verità è un libro godibilissimo in maniera universale, anche per chi non legge opere di genere. La definizione di genere è per molti aspetti solo apparente. Un’opera che mescola insieme la grande letteratura americana del Sud con la tradizione meridionalistica italiana, in particolare quella siciliana; a cui si aggiungono le tinte fosche di un film di Tarantino e la tacita lentezza o meglio immobilità propria di un western, in cui i personaggi tacciono e le loro azioni si dipanano nel paesaggio selvaggio. Il tutto reso unico da una voce particolare e dalla caratterizzazione di una Puglia inedita.
Molto c’è inoltre di attualità, di verità e di aspra critica: il clan dei Modeo (il Messicano) non è affatto inventato, per anni e anni ha tristemente gravato sula vita degli abitanti di Taranto e provincia; e uno dei suoi tipici lavori – nascondere rifiuti tossici sottoterra con il beneplacito delle autorità, inquinando le falde e uccidendo la gente, come descritto nell’opera -rappresenta uno dei tanti mali che avvelenano una terra bellissima e il suo popolo.
Allora qualsiasi etichetta di genere rischia d’essere fallace e ingannatrice: il tema è la vita, la “vita bastarda” e più autentica, contro la quale i protagonisti lottano per restare a galla, per cercare una via di fuga, tra soprusi e ingiustizie, violenze e sentimenti.
Omar Di Monopoli, con Nella perfida terra di Dio, si svela come uno scrittore tra i più interessanti della letteratura italiana contemporanea. La pubblicazione con Adelphi è la sua meritata consacrazione. Se non lo conoscete ancora, è il momento giusto per rimediare.
– Giuseppe Rizzi –
1 Comment