Lascia fare a me, Mario Levrero
(La Nuova Frontiera, 2018; trad. E. Tramontin)
Levrero (1940-2004) è uno scrittore di culto dell’Uruguay, ma ancora poco conosciuto e tradotto in Italia. Di fatti la pubblicazione di Lascia fare a me in estate non ha lasciato indifferenti gli amanti della letteratura sudamericana. La sua opera è il risultato di un apparentemente bizzarro ircocervo: nel calore brioso, tipico dell’anima latina, confluiscono un gusto giocoso per il poliziesco e una profonda ammirazione per Kafka. Si tratta di una commistione dall’effetto imprevedibile, come ben emerge da questo romanzo. Levrero ci porta dunque del Sudamerica più misero e inesplorato, in quella che può essere metaforicamente intesa una ricerca del genio e del talento.
Tutto ha inizio quando uno scrittore sull’orlo del fallimento supplica il suo editore, il Ciccione, di pubblicare il suo ultimo romanzo. Non ha soldi e sarebbe pronto a tutto pur di avere un anticipo. Il Ciccione lo intuisce, e così, all’ennesima, esasperante pressione, risponde che sì, avrà quel che vuole, anzi il doppio, ma nulla a che vedere col romanzo che ha scritto lui. Quei soldi deve guadagnarli in altra maniera. Infatti, mesi prima, era giunto in redazione un manoscritto misterioso, contenente un capolavoro, “persino migliore di Marquez”. C’è però un problema: il plico non contiene le informazioni sull’autore. Soltanto un nome, Juan Perez, sicuramente uno pseudonimo, e il timbro postale di un piccolo paesino dell’entroterra, Penuria.
E così lo scrittore si trasforma in un detective, per aiutare un anonimo sconosciuto a fare ciò che a lui più non riesce: pubblicare. Tuttavia il protagonista accoglie con serietà e partecipazione il compito: ha letto il manoscritto e n’è stato fulminato. Non prova invidia per un collega migliore, ma s’impegna per qualcosa che trova giusto. Ha inizio così una scalmanata avventura.
Il viaggio che avrebbe dovuto essere breve si rivela pieno di sorprese, e l’indagine più difficile del previsto. Sul proscenio del romanzo salgono ora personaggi d’ogni risma, che oscillano tra il grottesco, il patetico e il miserevole: una prostituta, una vecchia professoressa, una donna infoiata, un giornalista locale, persino l’ex bullo che emerge dal passato del protagonista nelle nuove vesti di venditore di cioccolata, tutti che distolgono l’attenzione dello scrittore-detective e depistano, più o meno volontariamente, una indagine già di per sé non impeccabile. Non manca neppure un albergo misterioso, dove gli ospiti sono invisibili o scomparsi. E sullo sfondo si susseguono come ombre una serie di veri o falsi Juan e Juana Perez.
Tra incomprensioni, cattive deduzioni e distrazioni, la ricerca arranca sempre più, come un cerchio impossibile da chiudere, che fa pensare, con le dovute differenze, alla ricerca di K. ne Il Castello. L’oggetto dell’indagine sembra inesistente, gli sforzi inutili, come metafore di una vita priva di senso. E anche in Levrero i personaggi che ruotano attorno al protagonista appaiono tutti custodi di un segreto come quelli di Kafka. Come loro, anche i luoghi – la mescita del primo e i bar squallidi del secondo o l’albergo stesso. Eppure il dolore che permane le pagine dell’autore praghese raggiunge qui livelli ben inferiori. Avvertiamo comunque una sensazione di fallimento, che è la miseria stessa del protagonista, ma in Levrero essa è bilanciata da uno spirito giocoso, da un’umorismo a volte velato altre più evidente.
La lettura di questo breve romanzo – poco più di cento pagine – scorre infatti piacevole: diverte, avvince, incuriosisce, proprio, come si anticipava, per la bizzarra commistione tra anima latina, poliziesco e Kafka. Al tempo stesso pone una lente sulle ossessioni e le passioni che distolgono il protagonista – forse alter ego dell’autore – dalla ricerca della conoscenza, dal raggiungimento del talento (rappresentato da Juan Perez).
Non a caso Levrero diceva, come riporta la prefazione: “La gente mi dice pure: ‘Ecco un argomento per uno dei suoi romanzi!’, come se io me ne andassi a caccia di argomenti per i romanzi e non a caccia di me stesso…Le mie narrazioni sono per la maggior parte pezzi della memoria dell’anima, non invenzioni.”
Per concludere, “Lascia fare a me” non è un libro di genere, un giallo letterario, può esserne al massimo una parodia. Si tratta semplicemente di un romanzo che si legge volentieri e che sa intrattenere, che cela, sotto le spoglie dell’umorismo, una serietà più grave, anche se a volte non sembra costantemente restare all’altezza di se stesso.
Mario Levrero è un autore molto peculiare, che merita di essere conosciuto.
Giuseppe Rizzi
Immagine in anteprima: Scorcio di Montevideo (fonte: JohnNico su Pixabay)