Quando le ombre si staccano dal muro, Francesco Giusti
(Quodlibet, 2019)
Francesco Giusti, classe ’52, è un poeta che ha una lunga carriera alle spalle. Da poco è uscito il suo ultimo libro, Quando le ombre si staccano dal muro, per Quodlibet, nella collana «bilingue» Ardilut, da poco inaugurata da Giorgio Agamben e che comprende autori come Zanzotto e Pier Paolo Pasolini.
Il libro si articola in sezioni, precedute da una poesia fuori campo, Orme, che rivela una funzione esegetica della raccolta stessa. Inizia così: «Rientrato cercherò un angolo stretto». In un verso riassume l’intento del libro: il ritorno da una lingua a un’altra. Infatti, la raccolta è composta di poesie interamente in lingua dialettale con traduzione a fronte dello stesso autore. Agamben riporta in prefazione una citazione di Giusti: «La sfida è portare vicendevolmente la parola scritta e quella orale (visibile e invisibile) a dire quel che non è possibile all’altra: ammasso di aggettivi», e questa dicotomia è applicabile non solo tra parola scritta e orale, ma anche tra dialetto e la lingua italiana.
La lingua si muove in continuo tra queste due regioni: nella sezione Lingua con lingua, si parte dall’italiano per approdare poi alla traduzione in dialetto; invece, in Lengua co’ lengua, avviene il contrario. A reggere l’andamento non c’è nessuna azione se non la memoria, il tempo fuggito, che in Giusti si distende con l’uso perlopiù di un verso lungo, che ricopre spesso tutto lo spazio dell’impossibile della pagina: questo spazio bianco non è solo una pausa di lettura, ma è attesa, è amore per il verso che diventa un verso.
«Le ombre» che compaiono nel titolo pervadono l’intera raccolta, sono simulacra, pezzi che provengono da un passato vivo ancora nella scrittura e per la scrittura: «A parecchie cose ci porta la baldanza di un fuoco».
La parola «essere» ha una ricorrenza elevata, sintomo di un presente che è possibile solo nella lingua e per la lingua; presente in cui si raccolgono i simulacra, quando Giusti scrive: «Ingoiati, digeriti,/ sputati fuori dal leviatano, siamo nell’aria non più/ bisognosi di direzione. L’idea/ della cosa anziché la cosa». Così il poeta si pone nel luogo dell’ideale, che è lo stesso dell’impossibile, dell’irrimediabile.
Lo stile, a volte, è arzigogolato, difficile per un lettore non praticante poesia. La sintassi è portata a limiti estremi come a voler rivelare, attraverso la sua scomposizione, la materia poetica. La complicazione avviene, inoltre, per l’alto numero di aggettivi, usati spesso in concatenazione, e che coagulandosi portano l’oggetto/soggetto a cui si rivolgono a una iper-presenza, perdendo malgrado in immediatezza.
Tuttavia non mancano assolutamente momenti di altissima lucidità in cui la poesia si distende. La poesia di Giusti resta umile, lontana dall’uso di sentenze, o versi di chiusura a effetto e lapidari. L’atmosfera è elegiaca, sì, ma pacata e distesa come laguna. Il lirismo è interamente dedicato alla lingua, perché essa è un soggetto inteso come luogo custode di tempi: le stagioni sono l’unico leitmotiv di scansione temporale e suddividono le tempistiche dei due anni in cui le poesie sono state scritte.
Un salire con passo stanco
Quando tutto è nella luce
che in fondo alla nebbia vacilla
tutto in fondo prende
un’altra forma. Quando tutto
si fa incerto e poi crolla
tutto in nuovo paesaggio si assesta.
Rincasiamo. Facciamo
suonare la chiave nella serratura.
Nello specchio salutiamo
uno, sempre lo stesso,
sempre un altro. Così
ci affidiamo all’attualità di una luna di porcellana;
quell’altra, quella di carne, cambia faccia,
s’impiglia nelle corde della vita.
Michele Joshua Maggini