Mamma è matta, papà è ubriaco, Fredrik Sjöberg
(Iperborea, 2020 – trad. di A. Berardini)
Oltre alla scrittura, gli interessi e le passioni di Fredrik Sjöberg sono pressoché infiniti. Nella sua vita si è dedicato, a falsi alterne o in contemporanea, alla filatelia, al birdwatching, alla botanica, alla storia dell’arte, all’entomologia e a chissà quali altre branche del sapere umano che suscitano costantemente la sua irrequieta curiosità. Nonostante lui stesso cerchi spesso di sminuire la portata della sua conoscenza, è evidente che la testardaggine e la passione che mette in ciascuno di questi hobby lo portano a collezionare un repertorio di saperi ampio e incredibilmente approfondito. Ciascuno dei quali viene poi riversato nei suoi romanzi, che sono sempre una via di mezzo tra narrazioni fascinose e racconti concreti di fatti storici, traendo spunto dalla realtà che lo circonda e dalle sue svariate conoscenze.
La passione di Sjöberg per l’entomologia ha portato alla pubblicazione di L’arte di collezionare mosche, per esempio, mentre il suo amore per l’arte l’ha spinto a inseguire in lungo e in largo il ricordo di Gunnar Widforss, pittore conosciuto in America ma completamente ignorato in Europa, protagonista poi del suo romanzo L’arte della fuga. In Mamma è matta, papà è ubriaco, la curiosità di Sjöberg lo spinge di nuovo a indagare vita, morte e miracoli di un’artista pressoché sconosciuto, in una ricerca durata tre anni e resa possibile non solo dalla giusta dose di testardaggine che l’autore mette in ogni sua passione, ma anche dalle competenze che ha sviluppato nell’ambito della storia dell’arte.
Il papà ubriaco del titolo è Anton Dich, un pittore danese relativamente attivo intorno agli anni Venti caduto presto nel dimenticatoio, più per resa personale che per mancanza di talento. Sjöberg aveva iniziato a prestarvi attenzione mentre indagava sulla vita di un altro artista, Olof Ågren, le cui memorie sono ora sepolte sotto un cumulo di aneddoti inutili. Il primo contatto tra l’autore e l’arte di Dich è legato invece un particolare dipinto, realizzato nel 1921 a Mentone, in cui vediamo due bambine sedute l’una accanto all’altra. A sinistra Hanna, a destra Lillan. Per Sjöberg è difficile concepire come possa un pittore di chiaro talento essere stato dimenticato in modo così infame. Inizia quindi a entrare nei meandri della sua storia biografica, ricostruendo un tassello alla volta la personalità e la vita di Anton Dich, viaggiando per incontrare i parenti ancora in vita, consultando archivi e lavorando con attenzione minuziosa per rimettere insieme il quadro frastagliato di un’artista giramondo.
Quello che però diventa subito chiaro è che persino nella sua biografia, Dich viene facilmente messo in ombra da personaggi molto più intricati e interessanti di lui. La mamma matta citata nel titolo ne è solo l’esempio più lampante: una ricca donna diventata musa di più pittori, parte di un’eccentrica famiglia di artisti o aspiranti tali, ragazze ribelli, filantropi e imprenditori di successo, in cui si avvicendano matrimoni, parti e divorzi come nella più intricata telenovela argentina. La storia di Dich non è altro che la storia di un matriarcato sopra le righe, in cui le vicende dell’autore si perdono tra quelle di molti altri personaggi. Non a caso la vera curiosità che dà il via alla narrazione non riguarda tanto Anton Dich, quanto l’identità di Hanna e Lillan, le bambine del quadro che ha colpito originariamente Sjöberg.
La ricerca da cui trae origine Mamma è matta, papà è ubriaco è gestita con professionalità e cura, ma la forma che Sjöberg ha deciso di dare alle sue scoperte rifugge dal mero trattato biografico per approdare a una narrazione fantasiosa e divertente, in cui la voce narrante interviene a più riprese per esprimere giudizi, ammettere le sue mancanze e aggiungere curiosità su questioni marginali o del tutto ininfluenti. Salti temporali, focus su personaggi sempre diversi, lunghe digressioni e riflessioni estemporanee fanno da contorno a uno stile sempre limpido e pulito, che difficilmente arriverebbe mai a tediare il lettore o a metterlo in difficoltà.
Sullo sfondo rimane comunque sempre l’ombra di un quesito fondamentale, ripreso poi in termini espliciti solo nel finale: com’è possibile che nessuno si ricordi di Anton Dich? Non ha vissuto un’esistenza così mediocre, la sua carriera artistica l’ha portato ad avere contatti diretti con autori che rimarranno nella storia, a cominciare dal suo compagno di bevute Amedeo Modigliani. Eppure di lui rimangono pochi quadri, pochi tentativi di metterli in mostra, poche testimonianze e ancor meno interesse.
In definitiva, il successo non è una questione che riguarda solo il talento, ma l’autostima, il contesto, la fortuna e un’infinità di altre direttrici che contribuiscono a rendere la vita imprevedibile, e proprio per questo degna di essere raccontata.
Anja Boato