Nostalgia di Dio, Lucia Calamaro
(Einaudi, 2020)
Simona, Cecilia, Francesco e Alfredo sono quattro amici, e sono rispettivamente una maestra, un’antropologa, il suo ex marito e un prete. Quattro amici che giocano a tennis. Quattro amici che cenano insieme. Quattro amici che intraprendono un pellegrinaggio notturno sulla strada di sette chiese romane. Cose comuni: questo il materiale – e, in generale, la “trama” povera di altri avvenimenti – su cui Lucia Calamaro ha lavorato per scrivere il suo ultimo copione, Nostalgia di Dio. Un testo di piglio azzarderei quasi filosofico, e che, a scapito di aspetti più narrativi, restituisce piena dignità al dialogo come mezzo teatrale, ne valorizza il potere di esprimere concetti e idee nella loro forma più pura, e lo innalza a fatto.
In poche parole, in Nostalgia di Dio la storia non si manifesta quale forma visibile, esterna, ma prevalentemente interiore, nelle considerazioni che scaturiscono dai sentimenti dei personaggi e dai sottintesi che stanno alla base dei loro rapporti. Ciascuno di loro è il risultato di storie personali differenti, che li forgiano e li determinano, rendendoli inevitabilmente unici. Eppure, come sempre accade, esiste un elemento che accomuna tutte le “storie personali” di tutti gli uomini che camminano sulla Terra: lo scorrere del tempo in un’unica direzione, che ci costringe a crescere e a cambiare. Ed è quindi porprio la crescita il tema che accomuna tutti i protagonisti di Nostalgia di Dio.
Ovviamente non è il solo. Se è nei sentimenti, nei pensieri dei personaggi che il testo si dipana, il sentimento che al di sopra di ogni altro incombe sulla scena è la nostalgia. Nostalgia nel senso etimologico del termine, coniato nel XVII secolo a partire dall’unione dei due vocaboli greci per “ritorno” e “dolore”: “il dolore del ritorno”. Il tipo di ritorno che desidererebbero i personaggi di Nostalgia di Dio è quello di uno stato di cose piuttosto che di una persona in particolare.
O meglio, ciascun personaggio desidererebbe il ritorno della persona che era un tempo, desidererebbe poter opporsi ai cambiamenti che lo scorrere della vita impone. E questo desiderio del ritorno si converte in ricerca. Ma nello specifico, ricerca di cosa? Come recita il titolo, Dio è l’oggetto della nostalgia dei protagonisti, un Dio che di conseguenza è venuto a mancare. La ricerca di Dio viene messa letteralmente in scena nel secondo atto, durante il pellegrinaggio romano. I quattro personaggi fanno, in tutti i sensi annessi, un giro delle sette chiese, che si rivela inutile nonché diverso da quello previsto dalla tradizione.
Nonostante la bontà dell’idea, si avverte una leggera discrepanza qualitativa tra primo e secondo atto. Dove l’umorismo e la maggiore concretezza del primo atto sopperivano al parlare un po’ sofistico e innaturale dei personaggi, il secondo atto perde qualche pezzo per stare dietro a vari simboli e astrattezze, si appesantisce e scivola in un finale dai buoni propositi, ma che abbandona a se stesso il lettore.
Nonostante questo, il lettore/spettatore non può non rimanere affascinato da quello che rappresenta il vero cuore del testo: la ricerca di Dio. La questione fondamentale non riguarda tanto l’esistenza o meno di Dio, ma la nostra esistenza in relazione a lui. Lucia Calamaro preferisce non andarsi a impantanare in un terreno instabile e banale, e risolve la questione semplicemente scavalcandola, e attribuendo all’idea di Dio un valore più vasto di quanto di norma inteso. Il dato certo che invece la Calamaro registra e analizza sta nel fatto che, se anche c’è stato, adesso questo Dio non c’è più. Ha abbandonato Simona, Cecilia, Francesco e Alfredo, non si cura di loro, più per distrazione che per disprezzo.
Si potrebbe pensare che questo senso d’abbandono si riconnetta a una questione culturale, in qualche modo “storica”, dovuta all’evoluzione del concetto di fede e di libertà di pensiero nella società moderna. Si tratta invece di un abbandono pertinente alla loro storia personale nel suo evolversi in quella direzione che è comune alla storia personale chiunque altro: la crescita. I bambini credono in Dio, i grandi perdono la fede. Ne viene che, proprio per questo, anche Dio è un bambino, un bambino inconsapevole dell’esistenza dell’umanità, più un figlio da accudire da adulti che un padre.
Ecco l’originalissimo ribaltamento di prospettiva con cui, nel monologo di Simona, si apre lo spettacolo: «E se avesse avuto il tempo di crescere, Dio, se fosse diventato adulto, c’avrebbe creato? No, non credo proprio che c’avrebbe creato. Dio è rimasto bambino» (p. 6). Il lettore assiste così a una singolare alternativa alla Genesi biblica, assiste all’invenzione di un “uomo per sbaglio”, di un uomo-giocattolo, dimenticato poi in un angolo della creazione. Il Dio della Calamaro ricorda sì i numi indifferenti di Epicuro, ma viene osservato dai personaggi della pièce da un punto di vista al confronto destabilizzante: perché Dio ignora la loro esistenza, e forse il motivo o la conseguenza di ciò è che loro non esistono, che le loro esistenze non hanno un senso.
La ricerca di Dio diventa allora ricerca di tante cose insieme: in primo luogo di concretezza, nei dubbi cartesiani di Francesco e nell’ossessione di Cecilia verso il suono delle cose, che si fa prova fisica della loro stessa realtà; ma soprattutto di certezze, di casa, di affetto, nella speranza di Simona di avere un figlio – un suo Dio? – e in quella di Francesco di poter tornare a esercitare il ruolo di padre di famiglia e marito di Cecilia. L’unico del gruppo che sembra cercare davvero il Dio con la maiuscola è Alfredo, prete le cui parole lasciano intuire che la sua fede sia consapevolmente un bisogno, e non una convinzione. Un personaggio a mio parere poco delineato al confronto con gli altri e rispetto a quanto avrebbe meritato.
Questo Dio di senso lato, in sostanza e in conclusione, è costituito della stessa materia di cui sono fatte le sicurezze dei bambini che gli adulti invece perdono, sicurezze che danno significato alla vita e che escludono l’esistenza dei problemi come Dio esclude l’esistenza degli uomini. Talvolta si ha sensazione che nel pezzo teatrale della Calamaro non succeda niente perché in fondo i personaggi si annoino. Si ha la sensazione che, in pratica, la nostalgia, l’inerzia dei personaggi non sia altro che noia: da bambini, invece, non ci si annoia mai, si è onnipotenti e autosufficienti.
D’altra parte, se Dio è un bambino, è venuto al mondo come bambino e vive nei bambini, allora forse tutti i bambini sono Dio, cosa che non solo sovverte l’idea comune che siano i genitori a essere dei per i figli, ma anche l’idea comune che umanità e divino distino l’una dall’altro spazi incommensurabili: siamo tutti stati Dio, un tempo. Nostalgia di Dio indaga in una maniera laica e al tempo stesso di una religiosità dolce e umana il dolore della crescita, della presa di coscienza, e il mistero della natività, di tutte le natività, nessuna esclusa.
Elisa Ciofini