Alla scoperta di Sadeq Hedayat e la sua civetta cieca

La civetta cieca, Sadeq Hedayat
(Carbonio Editore, 2020 – traduz. di A. Vanzan)

lacivettaciecaCarbonio Editore pubblica una perla di rara bellezza importata direttamente dall’Oriente: La civetta cieca di Sadeq Hedayat, romanzo breve considerato dalla critica come pietra miliare della letteratura persiana contemporanea. Un libro che all’inizio mi aveva incuriosito per la descrizione in seconda di copertina a cui in genere non faccio molto affidamento; in questo caso però sono contenta di aver seguito l’istinto, poiché leggendo la curiosità si è velocemente trasformata in timore reverenziale, e quando questo succede, spesso vuol dire che si ha a che fare con un’opera, e un autore, il cui impeto intellettuale non si consuma esclusivamente entro i limiti delle pagine scritte, ma fuoriesce andando oltre.

Inizialmente pubblicato nel 1937 in francese a Bombay, e tradotto qui per la prima volta in italiano dal testo originale grazie a Anna Vanzan – autrice anche della preziosa introduzione –, La civetta cieca è un vagare allucinato tra i ricordi dell’Io protagonista, un miniaturista di portapenne dalla mente perennemente offuscata da alcol e oppio.

L’abuso di sostanze è giustificato dal narratore in prima persona sin dall’incipit come unico mezzo per anestetizzare, seppur temporaneamente, la propria anima immersa in un’esistenza palpitante di dolore, irrequieta, che disconosce senza appello la felicità come possibile traguardo.

«Nella vita ci sono malanni che come lebbra, nella solitudine, lentamente mordono l’anima fino a scarnificarla.
Non è possibile parlare con altri di queste sofferenze: in genere, è costume considerare questi malanni come poco credibili, eventi singoli e rari. […] L’unica terapia è l’oblio dato dal vino, o la sonnolenza provocata dall’oppio e droghe simili: purtroppo, però, essi procurano effetti solo temporanei, e la pena, anziché scomparire, dopo qualche tempo si palesa ancor più inesorabile».

Ma la dipendenza, in questo romanzo, non funge solo da apparente terapia del dolore per il protagonista: il patto narrativo che il lettore sancisce col testo lo obbliga fin da subito a prender per buono il resoconto di un narratore dalla voce instabile, altamente inaffidabile dato lo stordimento mentale in cui si ritrova proprio a causa dell’abuso di sostanze. Come l’Io narrante è accecato dalle proprie paranoie e ossessioni, così è accecato il lettore, che ha accesso al mondo del protagonista solo attraverso il suo punto di vista distorto, non potendo contare su alcun punto d’appoggio.

Il romanzo si può suddividere in due parti: nella prima sezione il miniaturista, che sta scrivendo le sue memorie, ci racconta l’incontro con una donna dall’aura angelica eppure indecifrabile, la stessa che l’artista dipinge nella medesima scena su tutti i suoi portapenne: un cipresso, un vecchio accovacciato, una ragazza vestita di nero che gli offre un fiore di castilegia. Gli occhi di quest’apparizione ultraterrena sembrano essere depositari di una misteriosa verità che il protagonista cercherà in tutti i modi di possedere, sporcandosi le mani di pittura, oltre che di sangue.

L’addio con la donna segna l’apertura alla seconda parte del testo, in cui si sprofonda nella memoria dell’Io narrante senza sapere di preciso se gli avvenimenti descritti che si accavallano turbinosi siano davvero accaduti, solo sognati, o entrambe le cose situandosi così a metà strada tra sonno e veglia. Attraverso un movimento ciclico, cose e persone già presentate si riaffacciano nei ricordi del protagonista più e più volte in forme differenti ma simili nello spirito, creando una rete di connessioni ora più nascoste, ora più evidenti, che definisce, in questo cortocircuito di ripetizioni, non solo la struttura del romanzo ma anche lo stile dell’autore.

L’atmosfera onirica in cui Hedayat ci incastra ricorda, soprattutto nella descrizione degli esterni, pellicole espressioniste come Il gabinetto del Dottor Caligari, mentre le suggestioni macabre e il registro lirico si mescolano creando una prosa tagliente, a tratti violenta, che però non supera mai la linea dell’eccesso. L’alta tensione narrativa si protrae sin dalle prime pagine per tutto il tempo della lettura, in cui pian piano si fa sempre più serrato lo scontro tra verità e menzogna, luce e ombra, che lottando tra loro avviluppano e straziano l’anima già spaventosamente affaticata del miniaturista.

È proprio alla sua ombra che il narratore si rivolge mentre scrive, trattandola come custode e confidente dei suoi più intimi segreti in un mondo che rifiuta di comprendere i meccanismi feroci dell’esistenza, e l’importanza di condividerli con gli altri. Mentre l’ombra diventa l’interlocutrice privilegiata di questa confessione, in certa misura lo diventiamo anche noi, messi di fronte alla parte oscura dell’Io narrante e di riflesso anche alla nostra, senza che però ci vengano forniti gli strumenti per decifrare l’una o l’altra.

Non stupisce che La civetta cieca, per profondità tematica e filosofia di composizione, abbia incontrato il favore di tanti critici e comparatisti; già da quel poco che ho scritto si può intuire quanto la letteratura di Hedayat sia molto vicina a Kafka, Poe, Dostoevskij, creando un ponte tra cultura occidentale e orientale molto interessante da esplorare. Nella speranza che Carbonio Editore ci porti qualche altra cosa di questo autore, non resta che lasciarsi andare al flusso di questa narrazione ipnotica e delirante, accogliendo il caloroso invito a perdersi nell’ombra.

Angela Marino

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