“C’era un sapore agre sulle tue labbra. Era il sapore del sangue?… Ma forse era il sapore dell’amore. Si dice che l’amore abbia un sapore agre.”
Queste le ultime parole che Salomè pronuncia prima che il sipario cali sul finale: scritta in lingua francese nel 1891 durante un soggiorno a Parigi, Salomè di Oscar Wilde è insieme una storia di trasformazione e di de-formazione, intrisa di toni cupi e aspetti macabri. L’opera, prima di poter salire sui palcoscenici europei, fu per anni vittima di censura. Wilde aveva sì scelto per soggetto il racconto biblico, ma nel svilupparlo ne aveva esaltato gli aspetti più crudi e perversi, rimodellando la storia del martirio di Giovanni (qui Iokanaan) sul personaggio della ragazza piuttosto che su quello della madre Erodiade.
Wilde spostò infatti la colpa del martirio sulla giovane, nella tradizione semplice strumento della volontà omicida di Erodiade, che l’aveva fatta esibire davanti al tetrarca, suo marito, per ottenere l’uccisione di Giovanni. Nella versione decadentista, al contrario, l’innocenza della ragazza viene profanata dal peccato di un primo amore sui generis che, invece di iniziarla alla vita adulta, la conduce dritta fino all’autodisfacimento. È Salomè stessa, fisicamente attratta dal santo ma da lui respinta con profezie di perdizione, a decidere di offrirsi agli occhi del patrigno Erode nella danza dei sette veli, allo scopo di chiedere in compenso la testa del Battista. Realizzato il desiderio aberrante della figliastra, il tetrarca ordina di ucciderla.
Nello scandirsi dei dialoghi, la durezza della trama si accompagna sia ai ritmi fanciulleschi della favola, associati alla figura ingenua e quasi selvaggia della ragazzina, sia a quelli inquietanti della profezia, pronunciata di Giovanni. Gli uni e gli altri si ripetono in refrain formulari, vorticosi, che trascinano gli eventi verso il finale del dramma: il bacio necrofilo di Salomè. Ne sono esempi due leitmotiv: la profezia di dannazione, preannunciata dalla bocca pagana del paggio e poi predicata da Giovanni, e il succedersi ininterrotto delle metafore riferite alla luna.
Questo ripetersi di elementi permette al testo di avanzare su un percorso già spianato attraverso un ventaglio di rimandi interni pronti per ogni evenienza, che fanno dell’opera un meccanismo di specchi e rifrazioni tematiche dalle mille sfaccettature. Nell’imbastire tale meccanismo, la ricerca di concretezza sembra essere stata una delle preoccupazioni principali di Wilde: l’amore di Salomè, per quanto possa apparire immaturo e in gran parte inconsapevole, è pur sempre un amore carnale, esclusivamente fisico. Wilde non si astiene dall’insistere su quest’aspetto; la ragazza non si innamora di Iokanaan, ma del corpo di Iokanaan, dei capelli di Iokanaan, della bocca di Iokanaan.
Le scelte lessicali vanno di pari passo con l’intento dell’autore. Numerosissimi i termini, le espressioni e le situazioni che afferiscono all’area semantica della vista – Giovanni non vuole essere guardato da Salomè, mentre Salomè teme e subisce il fascino dei suoi occhi; durante la danza dei sette veli Erode osserva con concupiscenza la figliastra, e la figliastra si lascia osservare dal patrigno; tutti alzano lo sguardo sul pallore della luna e ne commentano la bellezza. Al tempo stesso però, tanto la vista della luna quanto quella della ragazza richiamano un senso di angoscia: entrambe bellissime, ed entrambe portatrici di sventure.
Proprio la luna, levata alta nel cielo a simbolo di questa femminilità turbata, subisce una trasformazione parallela a quella della giovane Salomè, senza tuttavia abbandonare mai quell’aura di mistero che la rende a tutti sospetta di poteri sovrannaturali: abbandonando la candida castità iniziale, si tinge di rosso, per poi scomparire nel finale sotto una coltre di nubi nere. La vividezza dei colori svetta infatti al di sopra di ogni altro elemento visivo. Ne emerge uno spettro in prevalenza tricromatico. Neri sono la notte, lo sguardo di Giovanni, la morte; rossi sono il sangue, le labbra del profeta, la passione di Salomè; bianchi la castità della luna, la camicia del Battista, il corpo della ragazza.
Altro motivo ricorrente è il numero tre, che non si ripete soltanto nella triade di notte nera, luna bianca e sangue rosso. Varie descrizioni e azioni sembrano infatti seguire uno schema tripartito. Per esempio, tre sono le tappe attraverso cui avviene l’innamoramento di Salomè, al termine delle quali prende coscienza del proprio sentimento: la ragazza passa in rassegna, descrivendone l’aspetto, gli occhi e i capelli di Giovanni, per poi capire che il centro del suo interesse è la bocca.
Al centro della narrazione c’è inoltre un triangolo che ha per estremi i protagonisti, Salomè, il Battista ed Erode: la prima protesa verso il secondo e turbata dall’ultimo; il secondo portatore di una profezia di distruzione contro Erode e il suo regno, e al tempo stesso in fuga dagli occhi, dalla voce e dalla mano di Salomè; l’ultimo in cerca della prima e tormentato, pur senza ammetterlo, dalle profezie di Giovanni. La caratterizzazione dei personaggi aderisce di conseguenza a questo moto circolare di fuga e ricerca.
A ben vedere, Wilde sembra infatti essersi avventurato in una lettura interpretativa del racconto evangelico tutt’altro che scontata, bensì moderna e si potrebbe dire quasi orientata alla psicanalisi, se non rischiasse di sembrare una forzatura. L’autore tratteggia la figura di Salomè sulla base delle relazioni che la ragazza intreccia con gli altri personaggi. In primo luogo, Salomè è un’adolescente turbata dal rapporto col proprio patrigno, che ha usurpato il ruolo di suo padre e le ha portato via l’amore di sua madre.
In secondo luogo, Salomè è appunto un’adolescente in rottura con la propria madre. È curiosa la malizia con cui la protagonista istiga i suoi interlocutori a pronunciare maldicenze nei confronti di Erodiade. La figlia cela e nutre un profonda accidia verso la donna che ha accolto a braccia aperte l’usurpatore, quindi desidera la sua condanna. In terzo luogo, Salomè è un’adolescente che, in un simile contesto familiare, scopre l’amore della carne, e di questa scoperta fa una vendetta verso i due genitori: disobbedisce alla richiesta della madre di non ballare di fronte al marito, e al tempo stesso inganna il patrigno proprio soddisfacendone i desideri. Lo costringe così ad acconsentire al capriccio innaturale di una bambina non educata all’affetto naturale: baciare le labbra di un morto.
Questo complesso organismo a più livelli che è la Salomè, se considerato nel contesto dell’epoca in cui fu scritto, si rivela ancor di più come la perfetta espressione del pensiero decadentista. Il testo di Wilde costruisce, con il gioco dei suoi personaggi, un edificio funzionante, di pieno equilibrio narrativo e insieme di terribile realismo. Una cattedrale gotica di altezza vertiginosa, intrisa di religione e di ombre, dalla cui superficie emergono busti di santi e gargouille: in una parola, sublime.
Elisa Ciofini
Analisi profonda e dettagliata, grazie mille dell’opportunità di averla letta e complimenti all’autrice.
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